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Res vs nihil

Uno dei meriti fondamentali, dai tempi della comparsa della scienza sulle scene del sapere, e che libera il pensiero degli antichi vincoli “icastici”, per così dire, che lo relegavano a testimone “freddo” di una realtà assolutamente data, è l’introduzione del concetto di apparenza. Per gli antichi, è noto, ciò che si vedeva – si toccava, si annusava- era la realtà, né vi era una modalità “altra” per sfuggire a questa verità. La cosiddetta certezza sensibile era l’unica certezza disponibile, ed era assurdo divergervi, dissentirla. Ma poi venne Galileo e mostrò, con un semplice vetro ricurvo, che gli occhi non vedono la verità, ma solo una sua piccola porzione. La verità era altrove dalla certezza sensibile. Questa non dava che le coordinate necessarie alla sopravvivenza di una creatura minuscola, persa in una cosmogonia che le restava assolutamente imperscrutabile. E così i pensatori scovarono quella formula: la percezione della certezza sensibile è parziale e ingannevole. La verità era da un’altra parte, chissà dove. Ciò che appariva ai nostri sensi era appunto un apparire, e questo un apparenza di qualcos’altro, celato, oscuro, una specie di disfida lanciata all’intelligenza per vedere se sarebbe stata all’altezza dell’enigma che l’avvolgeva. E il nodo centrale, il nervo sensibile, anzi la chiave nervosa del mistero era la dialettica: l’apparenza appariva come il contrario di una possibile verità, come l’antimateria della sua appunto volatile apparenza.
E così sembrò evidente che ogni cosa contempla anzitutto un contrario generale, che è il nulla, e quindi dei contrari particolari. Ma è il contrario universale a toccare l’essenza di quel vero di cui l’apparenza dovrebbe marcare l’antitesi. Dunque, cosa è la cosa e cosa è il nulla, suo universale contrario?
Facciamo la prova: raccogliamo una cosa, non so, una foglia. La rigiriamo fra le mani, la osserviamo. Se essa non fosse lì, nella nostra mano, sarebbe il vuoto, il nulla. Ma appunto questo non è (il nulla che non è) in quanto invece la foglia c’è. Allora, essa occupa il posto del vuoto che riempie? Una cosa è un posto vuoto occupato? Quello che non c’è, per esempio una cattedrale gotica, perché non c’è? Forse perché il suo posto è rimasto vuoto, non assegnato, non riempito? Ciò che appare alla mia immaginazione, non si trova in luogo di questa foglia solo perché c ‘è il suo posto vuoto? E quindi, quando avrò gettato via la foglia, resterà anche il posto vuoto della foglia?. Ossia, ogni posto è il posto vuoto di una sorta di non-cosa universale e onnipresente? Le cose, sono solo il loro posto riempito?
Allora, poniamo in luogo della foglia vera, una foglia soltanto immaginata: ecco, ora immagino la mia foglia nella mia mano. Qual è la differenza con quella precedente? Che il posto vuoto è ora occupato dalla mia immaginazione, che dentro quel posto vuoto c’è un’immagine mentale invece di un’immagine sensoriale. Al centro resta sempre la medesima cosa, ossia l’idea, il concetto, il pensiero singolare della foglia. Che stavolta è quella vera, è la realtà, nostra, né altrimenti ne sono concesse altre.
Le cose, oltre ad opporsi a se stesse, si oppongono perennemente al nulla, mostrando un’apparenza d’essere che non è se non in tale opposizione. Una opposizione dialettica appunto, per il che questo loro essere non può che ricondursi all’unico albergo che, dai tempi dei tempi, ospita la dialettica, che è il pensiero.
Alla certezza sensibile si offre il contrario del nulla, cioè l’oggetto. Ma il pensiero, l’autocoscienza, perviene al giudizio di apparenza su tale oggetto, e scova invece il suo “qualcosa” dentro se stesso: è il pensiero “la cosa”. La struttura dell’universo è ermeneutica- esiste solo il nulla, e la sua opposizione: il conoscere. Il contrario del nulla è il pensiero.
 

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