Una erre non spezza

Aveva le sue manie che evidenziavano, come la grossa punta di un pennarello giallo fluorescente, il modo con cui affrontava ogni giorno il duello con la quotidianità scialba che riempiva le tazze incastonate nella circolare ripetitività. Come la noria che sospinta dalla corrente replica gli stessi movimenti sino all’aridità del fiume. Una consonante vibrante, seppur posta al centro per spezzare la noia, non conferisce alcuna divergente traiettoria. Nel tragitto verso il lavoro, si accorse di incontrare le medesime auto, le medesime mamme che accompagnavano i medesimi bambini a scuola, il medesimo autobus che si arrestava alla medesima fermata per accogliere la medesima ragazza bionda seduta sulla medesima carrozzella. Pareva di camminare all’interno di un affresco privo di strutture prospettiche. Così, quel giorno, decise di non recarsi al lavoro, di sparire per un poco, di provare l’effetto che fa cambiare strada. Magari sarebbe potuto andare in stazione, salire sul treno per Trieste. Non era mai stato a Trieste. La conosceva solo per la bora e per quel palazzo in riva al mare, di cui non ricordava il nome. Belvedere, forse. No, Miramare, sì Miramare. Avrebbe placato la sua irrequietezza spezzare il cerchio? Non aveva la risposta, ma decise. In stazione sul binario 3, due punk a bestia fumavano seduti a terra con il loro cane, tra mozziconi di sigarette. Qualche piccione zampettava alla ricerca di residui di cibo. Un cellulare squillava. Una signora in sovrappeso seduta sulla valigia, si donava frescura con un ventaglio nero. L’obliteratrice era fuori servizio. Il treno era in ritardo. Il binario era quello sbagliato.