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Experiment

23.01.2012
Era molto strano. Non sembrava neanche vero guardarsi attorno e ritrovare quella normalità, come se niente più si fosse mosso da tempi immemori. Era come ricordarsi di qualcosa e viverlo contemporaneamente. Era strano, molto strano. In più, Julius ed Eva si erano svegliati esattamente all’unisono, e non appena aperti gli occhi si erano guardati con una sorta di stupore immalinconito, come se non fosse la cosa più ovvia svegliarsi appunto nel loro castello, sui loro divani infiorettati, mentre un clavicembalo lontano, da un qualche altro salone, lasciava che una gavotta bachiana scorresse per la fuga infinita delle stanze, prive di corridoi.
- Non sembra anche a te, Eva? – Chiese lui
- Che cosa? – Domandò lei a sua volta, confusa.
- È tutto così… non so, mi pare come di tornare dall’altro mondo…
- Sì. -  Fece lei. – Come risvegliarsi da un incantesimo…
- Eppure… già, oggi è sabato, no?, l’ultimo sabato di febbraio, 1759. Dovevo fare qualcosa prima di domenica… ma non ricordo. È strano.
-  Senti come suonano, di là. Ci siamo addormentati sui divani, tutti vestiti.
- Forse abbiamo bevuto troppo. Tiriamoci su. Andiamo a vedere.
Così si sollevarono e si lasciarono guidare dalle note, soltanto per vedere se c’era qualcosa, se era accaduto qualcosa. E attraversarono alcuni dei saloni in fuga, dalle porte incorniciate e i soffitti ingentiliti da angeli e amorini, dipinti e di stucco, che gli sorrisero dalle volte variopinte. Ma una insolita spossatezza si impadronì delle loro pur giovani membra e si risolsero ad accomodarsi su un paio di sedie di pelle, ai lati di una grande finestra, da cui non penetrava che un buio imperscrutabile, che rendeva persino vano gettarci un’occhiata. E chissà chi era il misterioso musicista che si esibiva in qualche dove, nel castello di 500 stanze, a quell’ora antidiluviana…
 
Ora, noi, dal di fuori, osservavamo la scena con le telecamere, molto intrigati da quello che avrebbero fatto. Li avevamo clonati, li avevamo vestiti con roba vecchia, e li avevamo inseriti in una realtà virtuale molto verosimigliante, di modo che potevano persino toccare le pareti del castello ricevendo la sensazione tattile della realtà. Ma assai poco era così: solo alcuni mobili e qualche suppellettile. Il castello virtuale era sospeso in un vuoto niente e uscendo sarebbero soffocati immediatamente. La musica era registrata, l’illusione perfetta…
Restammo così, a osservare quelle creature così diverse da noi, per vedere come si sarebbero comportate in una situazione a loro conforme e normale. Per vedere cos’era per loro la normalità.
 
Julius si accostò alla sua amica e le afferrò gentilmente la mano, come per invitarla alla danza. Poi s’incamminò cautamente, trainandola, sulla lunga prospettiva di tutte quelle porte. – Vieni. – Disse. – Andiamo a vedere. –
Intendeva cercare qualcuno e magari farsi spiegare gli avvenimenti della serata precedente, onde corredare di un senso e di una spiegazione lo smarrimento in cui si sentiva caduto e che riaffiorava a specchio nella sua stessa compagna. Sentiva una grande tristezza e, nel muoversi, s’accorse di perdere polvere, come di chi riemerga da un giaciglio di naftalina. Questo gli accentuò quella sorta di languore malinconico e improvvisamente avvertì come una specie di freddo entrargli nelle vene e ammonirlo, come di un pericolo incombente, come di un cordoglio che di lì a momenti avrebbe listato la sua vita… Questo monito era la solitudine. Una solitudine spropositata, sconfinata, incommensurabile in cui sentiva di star perdendosi al dolce accompagnamento di Eva, che quanto più era tenero, tanta più tristezza recava nel cuore di chi la traeva a sé nel proprio gorgo. Sentì che fuori non c’era più nulla, che non esisteva più niente. E pur non afferrando il perché di questa folgorazione, comprese tuttavia che si stava giocando le sue ultime carte e che mai più, mai più, la gioia della sua bella magione, la gioia di quegli amorini occhieggianti dai soffitti stuccati, la gioia di quella musica celeste che pure, oramai lo sapeva, nessuno stava suonando; e la gioia di stringere nella sua mano quella della beatitudine perfetta che la sua dama incingeva… mai più, mai più sarebbe stata concessa.
Allora disse: - Non c’è più nessuno. Siamo rimasti noi soli. E sento che fra poco anche questo ultimo bastione cadrà in frantumi e precipiterà nel nero vuoto che ci circonda. E tutto sarà finito, ogni gioia, ogni passione, ogni dolce effusione di teneri affetti…
- Sento anch’io che è così. Anche se non lo so perché lo sento, né perché dica: è così.
- Sento che questa vita che ci è offerta non è che un frammento della vita, una molecola che seppure ne mantenga il sembiante, non è che un minuscolo doloroso assaggio di ciò che è perduto, non di ciò che amiamo…
- Sì. – Replicò Eva. – Noi siamo felici, questa è la nostra vita che ci fa felici. E tuttavia qualcosa dice che non durerà. Non lo so cosa.
- Forse… - Mormorò colui - …forse non si tratta d’altro che dell’amore che ti porto, che se anche durasse in eterno, non potrebbe comunque uscire dalla vita, espandersi oltre la vita…
- Forse, caro… balliamo.
E salterellarono assieme nelle “figure” dei loro antichi passi di danza, perdendo polvere rutilante dai loro vecchi e sontuosi abiti, e mestamente consci che niente è per sempre.
 
Quanto a noi, l’esperimento poteva dirsi concluso e l’esito negativo: non eravamo riusciti a comprendere il loro mondo e in più essi avevano percepito la messinscena. Non potevamo afferrare la forza delle loro intuizioni, né farci una ragione di quella ostinazione, che essi chiamavano “amore”, di perpetuare fin dentro una fugace reincarnazione la devozione che li teneva avvinti l’un l’altro. Fino a sacrificarvi un fortuito estremo scampolo di vita che noialtri, per avventura, per curiosità, per esperimento avevamo voluto permettergli.
Il loro affettuoso balletto si esaurì presto e caddero ambedue come marionette scariche. Bastò un soffio leggero per annientare il castello imaginifico. Il vuoto tornò vuoto. Nell’assoluto incolore le due figure implosero e scomparvero.
 

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