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Massa e valore

Noi, chi siamo? Che voglio dire, cosa insinuo quando in luogo della mia unica e certa identità, io, pongo invece questa incognita: noi? Questo pronome plurale che mi include e tuttavia mi adombra con l’enigma dell’alterità; che dice di essere me stesso ma che poi si decuplica in una moltitudine soggettiva in cui proprio quel “me stesso” è perso, ed è proprio questo che ivi conta. Noi siamo questo perdersi dell’io doloroso in una plenitudine che, come un oceano, sciaborda dolcemente sotto il sole, cullato dalla spinta incontenibile dell’onda e quindi affrancato dalla angustiante responsabilità d’esser se stesso, d’essere individuo…? È meglio sentirsi un multiplo che io? E l’io, o è doloroso, o è perso?… Ahimè, non  c’è salvezza. In un mondo in cui l’uguaglianza sa più di umiliazione che di ideale, ci troviamo a sbattere contro il muro più inespugnabile mai eretto dall’uomo intorno alla propria solitudine, il muro globale. Il muro della ripetizione infinita, davanti al quale, ognuno per sé e tutti all’unisono, compiamo gli stessi gesti, ci inchiniamo allo stesso rituale, ognuno nella sua infinita solitudine persuaso di appartenere al partito dell’altro, che compie i medesimi gesti, persuaso a sua volta e come il primo di far parte della sua famiglia in quanto eguale. Una “congiura degli eguali”, in cui ognuno determina la propria appartenenza sulla base dell’altro, contando che lui, facendo esattamente quello che io faccio, sappia davvero cosa stiamo facendo e perché.
Ecco chi siamo “noi”: siamo il gruppo, la razza, la massa. Siamo ciò che non è importante dimostrare: si vede. è evidente: siamo noi. I colori non contano, e neanche gli inni: certo i ”nostri” colori e i “nostri” canti sono sempre quelli che pesano davvero- ma conta che siamo qui e siamo insieme. Noi non è responsabile, non è perseguibile,  non è mai il colpevole. Noi trova la sua ragion d’essere non nel suo essere determinato, ma nella determinazione del suo voler essere. Magari dietro noi c’è il nulla, ma siamo tanti ed esprimiamo la medesima volontà: siamo quindi qualcosa, e non il nulla. Noi siamo il partito, la classe, la squadra, non importa. Importa che si tratta di noi e che ne va della nostra vita. Si sa: per un ideale si può anche morire, e noi siamo il nostro stesso ideale: lo incarniamo, lo viviamo quotidianamente, fosse l’ultima cosa che “viviamo”.
È vero, c’è la globalizzazione, siamo tutti uguali, facciamo tutti le stesse cose. Ma noi no. Siamo salvi, la nostra fede ci salva. Gli altri, magari, sono uguali, tutti uguali. Noi no. Loro non lo sanno, ma noi abbiamo uno stile, una fede, un progetto. Loro, magari, nel loro piccolo, pensano anche loro qualcosa del genere. Ma sbagliano. La verità sta da una parte sola. Non ce n’è due.
E Dio è con noi… 

II
Dunque, se il ”noi” rappresenta il termine estremo di una nevrosi di cui esso è la sineddoche, dobbiamo cercare sia l’altro estremo, ossia il termine significante inverso di cui il precedente è la conseguenza; sia il termine medio che pone fra i due un principio di causa efficiente. Cercheremo di dimostrare che tale risultato è un chiasmo satanico, ove tutt’e tre i termini, anche quello medio, sono “ottusi” e perversi.
Così, quando si cerca rifugio nel “noi”, ciò avviene a causa della disfatta dell’ente in contropartita, che è “io”. È dal disgregamento, all’interno di tale ente, della radice dell’autostima che s’innesca l’orologeria vendicativa del “noi”. È la fuga dal proprio insuccesso come “io” che scatena la psicosi xenofoba del “noi”. La quale, in quanto nevrosi, si giustifica come inadeguatezza, come difetto della sfera morale-affettiva, che specchia nel proprio fallimento i sensi di una resistenza violenta alla penalizzante verità di cui si è protagonisti- ossia nella rimozione. Tirando quindi le fila del discorso, ne converremo che il lato opposto al “noi” è “l’io che ha successo”: è l’alienazione di questo la causa scatenante di quello. Se le cose stessero così, dovremmo prendere in considerazione l’ideale mancato, il successo, che è alla base del processo fratturante che muove dalla distruzione dell’Io verso la rappresaglia vendicativa del Noi. È il concetto del successo, il successo personale, il successo di “Io”, il fulcro assoluto su cui si incardina il gioco di azione-reazione tra Io e Noi Il fallimento di “io-azione” diventa l’ossessione di riscatto del “noi-reazione”. Perciò il Noi si descrive come parabola ritornante del neo-fascismo.
Ma il concetto di successo non è meno corrompente. Esso implicita una nozione di dominio in cui il mio Io sociale, una sorta di Noi in incognito, tocca l’apogeo della stessa temperie sociale, ponendosene a domino, a predatore, senza sgarrarne. “L’io che ha successo” si presenta così come la figura riuscita di un sistema di valori, il cui nervo cardinale è il denaro. Eccolo qui il termine medio tra Io e Noi, ciò che media tra il successo del primo e, ovvero, il fallimento e la vendetta del secondo. Ergo: ciò che è “riuscito” non è meno iniquo e corrosivo di ciò che è fallito. Perché pone come valore, non un ente “sublime” che trasvaluti la condizione umana e la superi, ma un traguardo, direi, anti-trascendentale, retrogradante alla pulsione animale, tellurico. Un traguardo di sola fame, in cui l’atto trionfale di sfamarsi è dato dalla società alla società, ossia è generato come valore della massa (del Noi) e si gioca tutta la partita della vita soltanto all’interno del proprio “Risiko”, concepito appunto fin dall’origine come fame. Ma se siamo fatti solo di fame, a che pro il successo, a che pro il fallimento? E successo e fallimento di che, di chi, di cosa? I concetti sono, né altro possono essere, tutti trascendentali. E il concetto di successo ricondotto al solo istinto di soddisfare le proprie libidini, non appena incoronato dall’appagamento della propria fame, inverte immediatamente la propria logica e, come la belva dantesca, ha più fame che pria…   
Alla fine, il successo dell’Io si commuta in fallimento dell’essere. In quanto che l’essere è posto linguisticamente, esso si articola come progetto, ossia come ricerca essenziale dell’ente che lo fa muovere e da cui procede. Ed è proprio questo movimento verso sé che s’incaglia nell’ostacolo della propria apologia, arenandosi in un esito auto-mitomane che è intessuto sulla emulazione sociale, non sulla prova della propria trasfigurazione. Così l’essere non è trasfigurato, l’essere non è l’essere. E si cangia in Io, l’io di successo. Prodotto di una nevrosi di massa che istiga al dominio della medesima condividendone il concetto di valore soltanto pecuniario e rendendosene quindi signori. Chi fallisce in tale nevrosi, ossia pressoché tutti, trapassa nella nevrosi opposta, ancora più lacerante. Da Io diventa Noi: non arrivando ad incarnare la signoria s’illude di parteciparvi tramite il proprio asservimento all’Io del comando. Così, il succube della seconda nevrosi è succube della prima. Non c’è giudizio, non c’è ermeneutica. Tutti hanno torto, la massa ha torto, Noi ha torto…L’essere lambisce la sua negazione assoluta, ripiomba nella notte della pulsione, regredisce verso l’animalità semplice. Un regno oscuro ove vige un unico, lugubre idolo: la violenza.  
 
 

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