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Cugini e stagioni

Il fienile era colmo di balle di paglia sin quasi alle grosse travi di legno scuro che sostenevano il tetto di coppi. Erano posizionate come tanti mattoncini a formare una scala sino alla piana sommità su cui si poteva giocare ed inventare storie. Era il terzo anno consecutivo che trascorrevano, lui ed i suoi cugini, le vacanze estive in quella vecchia casa di sasso adagiata su un cucuzzolo delimitato ad est da un possente noce e ad ovest da un allampanato abete. Per raggiungerla occorreva percorrere una via di polvere e argilla erta e ondulata esposta al vento che la spazzava da nord a sud, quando spirava. Forse da tale caratteristica il toponimo Ronco Freddo. La casa non aveva servizi igienici, ma possedeva una grande buca di quelle per la raccolta del letame, oramai dismessa. Ci si accovacciava all’interno tra gli sterpi e le pareti di pietra esprimendo ogni funzione. Con i suoi due cugini gareggiava a chi riusciva a pisciare più lontano. Ovviamente, lui che era il più piccolo era sempre sconfitto. Le femmine erano escluse dalla competizione testosteronicurinaria. Sul castello di balle di fieno si scatenavano in racconti e curiosità proprie di quell’età prossima all’adolescenza in cui si avvertono le modifiche del proprio corpo e quelle reazioni involontarie che possono arrecare imbarazzo. Si sottoponevano a prove di coraggio, come toccare quella lunga biscia nero verde che si dimenava attorcigliandosi, seppur priva di testa. Chi non avesse superato la prova sarebbe stato bersaglio del lancio di fichi più che maturi, di quelli che si spappolano nel loro liquido ambrato e zuccherino, appiccicoso come colla, caduti dall’albero che ombreggiava una piccola fonte, ai limiti dell’aia. Quella volta fu una delle cugine ad essere sconfitta, la maggiore. Accettò l’onta. Si spogliò nuda, perché se fosse tornata in casa con i vestiti imbrattati, nessuno avrebbe potuto sottrarla ai rimproveri. Anche lui, nonostante fosse intrappolato con lo sguardo dalla pelle bianca, lanciò i proiettili. Ridevano, anche la sconfitta, ogni volta che veniva colpita. C’era un qualcosa di sadico, intimo, volgare, cattivo, in quei momenti che percorreva il sangue che scorreva nelle vene. Quando fu lui ad essere sconfitto, in altro cimento, la punizione fu diversa. Il suo pene doveva essere legato stretto stretto tra due pigne e trafitto dagli aghi secchi dell’abete. Senza malizia alcuna, come allora, nudi sul tappeto, lui e la cugina, quella dei fichi, ricordando le estati trascorse, scherzavano delle proprie disastrose avventure sentimentali, facendo a gara a chi avesse vissuto la più coinvolgente e dolorosa. La punizione per lo sconfitto? Nessuna. Non avevano più alcun morboso segreto da svelare, ma solo un profondo affetto da non dimenticare e conservare, come quella frutta, richiusa nei barattoli di vetro dal tappo a vite color ottone, che si assapora fuori stagione, quando si desidera l'esate d'inverno o l'inverno d'esate.
 

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