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Il vecchio rosario

La frazione di casupole rurali di S. Maria della Mole in Marino, con il passare degli anni si era      modificata ad una piccola cittadina di provincia.
I suoi negozi e  i suoi ipermercati provvisti d’ ogni ricercata mercanzia.
Gli abitanti che seguivano la moda del secolo consumistico imperante, comprandone tutto ciò che il lusso e lo sperpero offrisse loro.
La ricercatezza nel loro vestire alla moda, e l’ apparenza esteriore ne erano prassi comune e sociale nei nostri stolti anni.
La rappresentazione ostentante della ricchezza e dell’ opulenza ne identificavano del popolo italico, i sacri crismi culturali di una società decadente.
Delle auto di grossa cilindrata a grande velocità percorrevano le piccole strade dissestate della cittadina, e i cellulari di ultimissima generazione squillavano in ogni angolo di strada e dentro ogni dove.
I televisori di ultima generazione con lo schermo sottilissimo, oramai giacevano negli angoli di qualsiasi casa pur di modesta entità economica.
Il simbolo del benessere e della voluttuosità umana diveniva l’ unico modello economico cui ispirarsi, anche in una piccola cittadina di provincia senza gloria.
La globalizzazione e la modernità erano inesorabilmente piombati sopra l’ esistenza semplice e tranquilla dei rozzi provinciali, e i più giovani di loro, se ne stavano da nulla facenti dentro i piccoli bar a dissipare il denaro con le Slot Macchine, e a sognar avventura.
Terra d’ animo assai arida il loro futuro, terra incolta e definitivamente abbandonata, da costoro.
I figli dei vecchi contadini tenevano la speranza di vendere a buon prezzo i loro piccoli possedimenti, appezzamenti terrieri svenduti a qualche squallida immobiliare senza scrupoli con la complicità del politico infingardo di turno, che nel passare la terra agricola in edificabile, ne speculava un utile di denaro anche per se.
Gli appezzamenti di terreno agricolo venivano soppiantati lentamente, e tappezzati da case del tutto simili a stabulari, abitazioni impersonali che s’ innalzavano sempre più verso il cielo per sfruttarne della propria cubatura di costruzione il massimo profitto di guadagno.
Vendere a basso costo pur di realizzare un minimo economico, regalare … ciò che era stato dei propri nonni e padri fonte di sostentamento, e al fine, violentare le loro umili fatiche del passato.
Questi arrivisti svendevano la fonte stessa della loro dignitosa crescita e sopravvivenza, a favore della famigerata economia priva di alcuno scrupolo paesaggistico e culturale.
Il paesaggio stesso ne era sempre più deturpato dalle lobby di potere, con la complicità di una politica locale collusa con il potere spicciolo e imperante.
La stessa chiesetta in Frattocchie ora scandiva con le proprie campane elettroniche i propri lamenti sterili, che nella cadenza lenta del giorno e della notte ne segnava indelebile grigiore.
Dall’ alba al tramonto i giorni lamentavano il tedio di una generazione fin troppo stordita e condizionata nel superfluo diveniente, e ingloriosamente trasportata nell’ inconcludenza individuale e sociale.
I giovani ne venivano allontanati e sottomessi dalla vera necessità e consapevolezza d’ esser al fine … soltanto che uomini.
Le memorie dei suoi concittadini più anziani, invece, a tratti riemergevano dentro il loro passato e nel proprio ricordo.
La loro mente penetrava nuovamente un antico passato storico, dove l’ urlo del vento che senza alcun contrasto di cemento percorreva libero e veloce le terre coltivate a orto.
L’ ululato del vento ne piegava gli alberi di frutto e i filari di lunghi vitigni di grappoli di onice dorata: chicchi d’ uva dipinti dal sole estivo.
Le folate incontrastate in quegli anni frusciavano impavide e imperanti, a formarne in onde le spighe dorate di grano, e le stesse sementi cresciute rapide e ben alte.
Tutto rientrava nella norma illogica del moderno, pensò il vecchio Don Bruno mentre s’ accingeva a salire faticosamente i gradini della sua piccola chiesa per mettere in ordine le proprie immediatezze, e celebrare da lì a poco la Santa Messa ai propri accoliti e ferventi.
I fedeli più solerti s’ erano seduti e sparpagliati tra le prime panche, e in silenzio raccoglievano le proprie anime a un loro Dio ormai perduto e sempre più assente.
Una donna molto anziana teneva tra le sue mani una corona d’ ossi di ulivo essiccati e congiunti da fori penetrati da un sottile cordone, filo dal colore rosso assai sbiadito.
Il rosario stesso possedeva un proprio aspetto smorto e violentato dal tempo, perduto anche esso nel fluire perenne degli anni e tra mani fin troppo sudate di devozione dei suoi lustri possidenti.
L’ anziana vecchina se lo passava lentamente tra le sue dita ossute e vizze quel suo antico ricordo, un oggetto che era stato in possesso della propria madre e ancor prima, di sua nonna.
Un lascito susseguente di madre in figlia, un ricordo vivo di un presente colmo di speranza e religiosità.
L’ oggetto era un omaggio di preghiera per un caro estinto ormai perduto per sempre, catapultato il trapassato in un aldilà fin troppo immaginifico.
Le labbra dell’ anziana donna di tanto in tanto bisbigliavano in un dialetto chiuso, arcaico … alcune sue frasi incomprensibili, persino a me che ero a pochi passi da lei.
Le sue parole venivano velocemente sussurrate da costei, e dentro un flebile strascico di devoto soliloquio interiore, ella pregava e piangeva.
Ero eretto in piedi al centro della navata centrale della piccola chiesa, e soltanto lo scricchiolare del legno delle panche sotto la pressione del peso dei fedeli ne scandiva in quel momento il decoroso silenzio dell’ attesa.
La luce del sole intanto filtrava soffusa e discreta dalle grandi finestre di vetro dipinto, dove vi era raffigurato il diveniente giudizio universale.
Gli angeli con le loro spade sguainate che discendevano sopra la terra degli uomini, e un cielo di intenso celeste che si apriva a una luce protesa verso un orizzonte languido e sparpagliato di eterea beatitudine.
I colori stessi del vetro dipinto emanavano nel l'interno della chiesa un chiarore di un fervente soffuso, un innaturale fascio di luce a germogliar la quiete agli animi.
Nei due lati dell’ altare centrale, due alti candelabri riflettevano la luce di dodici candele ciascuno, che oscillando di contrasto alla flebile corrente d’ aria proveniente dalla porta laterale semiaperta, sussultavano a tratti con la loro fiamma in una risposta simultanea e silente.
Un comando sublimizzante e innaturale, anche per me che lo stavo ad ammirare.
La mia mente d’ improvviso paragonò quelle stesse piccole fiamme di fuoco a l’ animo sensibile, che di così precario ed incerto cammino nel destino dell’ uomo è … nel contrasto con il vento impetuoso e illusorio a cui dobbiamo tutti noi necessariamente contrapporci.
I pochi fedeli che in quel momento attendevano in silenzio l’ inizio della S. Messa … m’ apparvero come fossero poveri bisognosi in cerca di una direttiva per il proprio smarrimento.
La loro evidente ricerca dolorosa, ad una sequenza fin troppo obbligatoria, al l’esistente.
Per costoro era il medesimo bisogno necessario e trascendente ad esser carne viva di aspirazione e sogno, e il proprio terrore verso il proprio esserne vita.
I cattolici, che erano presi in una celebrazione rituale dove nel contempo si suggellava la vita, e la morte di ogni essere vivente.
Per quei devoti, era la stessa rimozione dei peccati loro, che declamava strazi laceranti al l’animo proprio. Un contrasto forte della natura, alla loro stessa cieca devozione.
I poveretti elargivano al loro Dio le loro stesse mutole urla, da uomini incompresi. Don Bruno stesso che s’ era apprestato intanto al centro dell’ altare dovette accorgersi di quella strana atmosfera surreale che incombeva dentro la chiesa in quel mattino, tanto che, anche lui appariva smarrito dentro una sua estasi interiore.
Il sacerdote stava in piedi al centro dell’ altare e guardava fisso in direzione d’ ognuno degli astanti il loro perduto viso. Il prete appariva turbato dentro il proprio volto; viso rapito il suo fin dentro una propria espressione di sfida personale verso l’ immortalità professata da lui stesso.
Il sacerdote nel fissare a turno gli occhi dei suoi fedeli, sembrasse volerli rincuorare istintivamente delle loro sofferenze patite ... da costoro.
Gli occhi smarriti dei suoi stessi accoliti intanto ne fissavano dettagliatamente le movenze del prete, in un silenzio perdurante.
Le iridi di quegli anziani riflettevano le proprie perdute origini contadine, e in una loro trascendenza ormai fin troppo distante al proprio naturale dolore.
Ognuno se ne stava di turbamento proprio, e nella propria sconfitta individuale verso l’ imponderabile volgeva il suo pensiero.
Ciascuno di costoro traeva di far conto solo con le proprie umili forze, soltanto a se stesso.
In ogni fedele c’ era la resa dei conti nel bene e nel male, e di ciascuno v’ era l’ obbligo del viversi la propria intima debolezza salvifica.
Il rumore tenue del rosario passato tra le vizze ed ossute dita dell’ anziana irrompeva a tratti in quel luogo di silenzio. Me ne stavo di lato della navata di sinistra, ed ero seminascosto nel l’ombra di una colonna riprodotta con l’ architettura Corinzia.
Guardavo i volti smarriti degli astanti, e riuscivo a captare ciò che è dell’ essere umano una prerogativa dell’ infinitamente nascosto a l’ occhio umano.
La paura e il terrore sottaciuto, di costoro, per una loro e innegabile difficoltà nel viversi il proprio mutamento corporeo e mentale.
La trasfigurazione apodittica e riflessa indelebile, nel ricordo di uno specchio giovanile, per tutti noi. Immagini catturate nella mente mia e la loro, foto irriguardose fin troppo trasformate dalla storia ormai in frantumi dell’ essere uomo.
In quella mattina era il soprasensibile che con i propri intuiti a- priori e i suoi scomposti fenomenici, che mi rendeva pensieroso.
Persino in me stesso determinavo la mia debolezza della carne e della mente mia.
Era il silente tumulto mio emozionale, che come fosse un fiume in piena, al fine, ne tracimava la speranza per ogni comprensiva logicità.
Erano gli occhi sperduti di un uomo qualunque, un uomo proprio come me, che tentava di carpirne i segreti di ciò che è soltanto dell’ infinito immaginifico.
Ero io in quel mattino, un senziente frammento di carne e sogno, trasportato dal vento casuale del fato. Don Bruno stesso impalato al centro dell’ altare appariva languido e malinconico.
Il prete era triste, e i suoi occhi parevano voler celebrare ancor di più in quel  giorno l’ indulgenza planetaria.
In quel sacerdote v’ era l’ intento in quel giorno di donare clemenza a profusione, e dove le sue stesse iridi turbate di piena consapevolezza s’ erano inabissate nel proprio profondo sprofondante. Soltanto le strascicate parole incomprensibili della donna più vecchia di tutti noi, che si amplificavano a tratti nella navata come fossero profezie richiamate in altro tempo dimensionale, e che mi apparivano come un canto di un cigno decaduto.
Le parole di lei dentro un flebile sussurro senile, e dentro un arcaico comunicare che soltanto ad un Dio assente era dato percepirne nettamente l’ intrinseco significato.
Due suoni di un clacson irruppero definitivamente il silenzio racchiuso in nel l’istante rappresentativo, due suoni lontani, in una sequenza temporale che portava in se la spavalda fretta e impazienza della vita frenetica e quotidiana.
Alcuni ragazzi correndo avanti alla porta centrale della chiesa schiamazzarono a voce molto alta, mentre in lontananza si udì dirompente il rombo di un aereo che sorvolava a bassa quota il cielo nitido sopra la piccola frazione cittadina.
Don Bruno dai rumori percepiti improvvisi, si destò fulmineo dal proprio torpore, ed egli stesso dovette immaginare che quelle avvisaglie non fossero altro che dei segni premonitori al suo proseguo per la santa messa.
Il prete finalmente desto, e nella sua consapevolezza di esserne compimento primario della funzione religiosa, iniziò a celebrare subito la sua orazione con voce ancora flebile.
In quanto a me arretrai con silente reverenza, e guadagnando l’ uscita della piccola chiesa ne scesi ad uno a uno i suoi bianchi gradini.
Mi trovai nuovamente nella strada, e un rumore assordante m’ avvolse nuovamente nei miei sensi, nei miei pensieri.
La frenetica pazzia quotidiana mi risucchiò in se stessa, e quindi mi distrassi nuovamente ... dal pensare.
Un mese dopo, mi affrettavo curioso dentro i banchi di Albano Laziale ad ammirare il mercatino dell’ usato.
I miei occhi posarono il loro sguardo distratto sopra un banco che teneva cianfrusaglie alla rinfusa.
Lì lo vidi … quel vecchio rosario ancor più sbiadito nel tempo e nel ricordo, e ben lontano da l’ oggetto ... dalla sua proprietaria che con quelle sue piccole mani vizze e ossute, e prive di alcuna forza, se lo accarezzava e lo passava con amore tra le dita della sua senile mano.
Lì lo vidi, sparso tra oggetti di alcun valore, tanto che, ancora riecheggiava nel mio ricordo la voce tremula dell’ anziana.
Quegli ossi in filamento da lei sfiorati nel suo tocco lieve, e una grande fede nel l’animo di lei d’ insieme a una sua fervente speranza nel diveniente.
Un dialogo tra una donna e il suo oggetto personale, una complicità la loro assai composta, profonda. Il ricordo della povera vecchietta ora era in me.
Quel l’oggetto che ora giaceva inerme e sconfitto sopra quel banco colmo di minuzie, mi fece percepire uno strazio infinito di solitudine.
La morte dell’ anziana donna così palese e conclamata dal beffardo destino, e quel suo fato che sfiorava involontariamente anche quello mio.
La mia stessa commozione interiore che ora interagiva nel mio animo colmo di tristezza, per chi non c’ era più tra di noi.
Non credo al loro Dio di fede e assenza perdurata, ma soltanto a quello mio … che è presente in me. In ogni caso, io lo comprai subito quel vecchio rosario, togliendolo immediatamente da quella bancarella che non dava alcun valore per le altrui illusorietà.
Quel venditore dell’ usato ne ignorava anche lui il significato intrinseco di quel l’oggetto, dove ancora in quei suoi ossi di ulivo ne palpitavano i sogni di una povera donna vecchia, e dove ancora se ne udivano i sussurri preganti … di un animo ormai spento.
 

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