Un ricordo di te | Prosa e racconti | Silvia Leuzzi | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un ricordo di te

 

Quando ti ho conosciuto? Mai forse. Sei sempre stato quel sogno irraggiungibile, il ragazzo bello e bravo che tanto piaceva a mio padre. Piacevi pure a me da morire ma eri così mutevole, così sfuggente, così imponente nella tua altezza da dio greco, Dio come eri bello!!! Sembravo quasi scomparire tanto ero piccola.

Eri l'angelo che ti trovavi davanti all'improvviso e che ti risollevava la situazione rendendola eccitante. Come quella sera quando con Maria e Carla ci aggiravamo per i pub di Trastevere, così come eravamo solite fare in quell'epoca ormai così lontana, sempre in cerca di emozioni forti. Eravamo esagerate è vero, notti in bianco solo per vedere spuntare il sole e poi via ancora in giro con un affanno inspiegabile. La vita amico mio, la vita ci mordeva il culo. Ancora mi ricordo la tua vecchia 1100 della FIAT, che sembrava sempre nuova, invece risaliva ai primi anni sessanta, uno dei primi modelli, quelli panciuti e super teneri. Quella sera aveva cominciato a piovere, i miei mi avevano vista uscire e mi avevano brontolato dietro ma non li ascoltavo già più. Carla aveva casa libera, i suoi erano fuori e avevamo una scusa in più per sentirci libere, libere di esplorare la notte nelle sue cavità scure, ma quella pioggia, dannata... stavamo già pensando di tornarcene a casa quando sentimmo un clacson e alzando gli occhi ti vedemmo, un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Sei sembrato un faro luminoso atterrato tra i palazzi muffiti di Trastevere. Ci siamo scaraventate nella tua automobile con l'euforia dei nostri diciotto anni.

Erano ormai già le undici di sera e non avevamo voglia di finire così la nostra notte e tu hai avuto un'idea bellissima, se fossi qui lo ricorderemmo insieme o forse no chissà!

Il mare di notte è affascinante, il freddo non lo sentivamo riparati con le spalle a ridosso di quel casotto di un piccolo stabilimento, semi abbandonato alle intemperie dell'inverno. Poi c'era quel buon vino di tuo padre, noi eravamo ruspanti, non avevamo liquorini alla frutta, noi avevamo il buon vecchio vino di casa. Sbronze sane e ridanciane e tu che ci parlavi della magia dei colori, ricordi? I tuoi cieli gialli, li vedevi così e li dipingevi, immortalando i tuoi incubi e le tue speranze. Era buffo pensare che agli occhi di tutta la borgata eri il bravo ragazzo, tu. Noi le debosciate, poco raccomandabili, quelle che uscivano a buio e rientravano sul far dell'alba, davamo da chiacchierare alle vecchie beghine, che ci guardavano di sghimbescio.

Correva la vecchia millecento lungo un' Aurelia buia e deserta, un languorino ci aveva afferrato la pancia e ci proponesti gli spaghetti, che mangiammo alle quattro di mattina. Una notte dedicata alle vibrazioni sottili, noi cercavamo il potere dei versi nelle nostre azioni quotidiane. Rimbaud e Verlaine che si baciavano lungo la riva, un'immagine sfocata, poi un colpo e più nulla, solo fantasie. Morderci il tempo e aspettare lo spuntare del sole su un prato con la faccia pesta ma ancora lì, ancora pronti per un'altra battaglia contro questa società, che non ci capisce, che non ci vuole. Ma non sono le stesse cose che dicono i ragazzi di oggi? Tu non li puoi sentire, hai consegnato la tua storia a quel muro contro cui si è sfracellato il tuo sogno. Dove andavi? Sempre a notte fonda, sempre senza sonno la nostra vita, sempre dentro queste scatole o bare di latta.

Tante storie ci hanno unito, tanti momenti unici ed irripetibili, come le nostre corse sulla spiaggia. Le cercavamo deserte, tu sempre con noi tre, tre femmine mezze pazze, chi ci vedeva insieme avrà immaginato tutto e noi tutto facevamo ma non di quello che pensavano quelli con la mente ottusa.

Eri l'ombra magica, mi riempivi il cuore di gioia ma ci siamo sempre passati vicino, ho sempre avuto l'impressione di sentire il tuo sguardo attaccarsi alla mia carne ma eravamo ragazzi, correvamo. Ti ricordi quando mi portasti in moto? Ce le avevi tutte tu, tuo fratello era carrozziere e riuscivi a farti prestare sempre macchina o moto, avevi il potere di trasformare una situazione banale in qualcosa di unico.

Eri odioso, quando ti ci mettevi e bisognava lasciarti stare. Erano i tuoi momenti di solitudine, quelli che, afferrato un blocco, sparivi, a volte per giorni. Eri fatto così, ti amavamo per questo, ti faceva diverso, bello e disperatamente dannato.

Devo a te se non ho più quel bisogno quasi spasmodico di fumare. Mi faceva invidia quel tuo fumare senza vizio e a chi te lo chiedeva rispondevi sempre: “ Fumo quando mi va, non sono schiavo delle sigarette, sono libero sempre “ e siccome sono sempre stata testarda, con il tempo anch'io ho riacquistato la libertà di non farmi soggiogare dai vizi, soprattutto da quello del fumo.

Falò con canti e chitarre e le tue paranoie, te le meritavi le manciate di sabbia che ti tiravamo quando esageravi, perfezionista oltre ogni misura. Ti facevano bene perché ti ripigliavi e ritornavi a rappresentare la parte migliore di te, quella che si soffermava ad annusare i fiori, ad incantarsi davanti ad un tramonto, a guardare le stelle. Era il nostro passatempo, ci passavamo metà della notte a vagheggiare su quei puntini luminosi, mentre il mare con la sua risacca monotona ci ascoltava forse infastidito, forse...

Quei capodanni insieme, ricordi?, che tempi magici, ora avvolti nelle nebbie della rimembranza, il tuo volto che mi occhieggia dalla fototessera piccolina, unica immagine della tua faccia da schiaffi. Ci riversavamo a frotte dentro una casa, bottiglie e fumo e la notte prendeva colore, tu che sfottevi il povero Alberto, caro amico con la sua cinquecento dentro la quale quasi ti dovevi piegare per quanto eri alto.

Ancora ricordo i nostri occhi terrei dentro quella chiesa che ci aveva visti bambini tutti quanti, quella bara eri tu e tante parole tra noi non sono mai più corse.

Forse ci siamo amati perdutamente ma non abbiamo mai avuto il coraggio di parlare, vedi il potere della comunicazione...il tempo ti offre delle opportunità non le afferri e le hai perdute.

Comunicare, per quanto fossi un buon conversatore, comunicare le tue emozioni non ti è mai riuscito. Piuttosto eri capace di mandare in paranoia tutti noi, con le tue fisse improvvise, matto eri matto, ci piacevano i pazzi di vita, i dimenticati, i perdenti. Noi ci sentivamo perdenti e ne eravamo sfacciatamente orgogliosi.

Se avessi saputo comunicare forse quella notte..... ma nonostante la birra mi galleggiasse nella testa, ben miscelata a tutti i fumi della nostra serata a Villa Ada, non ero così confusa da dimenticare me stessa, la mia dignità, la mia testa.

Tu non lo hai mai saputo ma quella sera la mia amica voleva provarci con te e mi aveva dato ordine di lasciarvi soli. Ho ballato da sola e ho sentito i tuoi occhi addosso ma credevo fosse una mia impressione. Villa Ada, il caldo dell'estate, l'euforia della musica ci si ritrovava dall'altra parte di Roma, un tacito appuntamento con il divertimento, tutti stipati nelle poche macchine disponibili.

Quella sera avevi una macchina sportiva, uno spettacolo e ci hai scarrozzato con la musica a tutto volume. Poi al ritorno avevamo lasciato a casa la mia amica , alla quale non era riuscito di combinar nulla, e tu mi guardasti, mi ricordo i tuoi occhi e ingranando la marcia: “ Senti ma che ore sono? Sono le due hai fretta ? “ ti guardai: “ Fretta di che? Ormai si dorme poco come al solito, le pagheremo Massimì da vecchi!...” partisti a tutto gas: “ Senti non abbiamo né da bere né da fumare andiamo a fare un giro per Roma, troveremo un cazzo di tabaccaio no? “ io non ne ero molto convinta ma non avevo sonno e la notte era troppo affascinante.

Non girava di certo la polizia di oggi, altrimenti i nostri sogni si sarebbero fermati ad un commissariato.

Il Colosseo di notte con le sue luci e allora ci si passava accanto, che scempio, che sballo tutti quei marmi e la storia che ci investiva la faccia. Cercare un tabaccaio a quell'epoca diventava un'impresa titanica ma alla Stazione termini lo avevamo trovato e finalmente una birra e una sigaretta, poveri polmoni.

Poi di corsa verso casa erano ormai le quattro. Ti sei fermato all'Agip, quello grande sull'Aurelia:

“ Scusa ma gli butto diecimila lire di benzina altrimenti domani mi fratello me fa nero “ Avevi rispetto di tuo fratello grande, come lo avevi di tutta la tua famiglia.

Sull'Aurelia non passava un'automobile, i lampioni che la illuminavano in quel primo tratto, sfracellavano il loro bianco neon sull'asfalto nero.

Poi non ricordo perché, né per come mi chiedesti di fare l'amore. Ero stonata ma mi lasciò male il modo con il quale me lo chiedesti, non ritenevo possibile che tu mi avessi parlato così, perché e perché proprio adesso che avevo il ragazzo, me ne sarei morta anni prima.

Invece mi sovvenne di pensare a tutte le chiacchiere, che facevano i maschietti, sulle mie uscite notturne da sola e una rabbia sorda mi invase. Mi sembrava che mi stessi mettendo alla prova.

Certo non ho più avuto modo di chiarire, perché il destino ha scelto per noi, sei andato a dipingere il cielo, che è diventato più giallo e ti vedo ancora con il pennello in mano, davanti alla tela, nel tuo studio con quel forte odore di acrilico e olio di lino.

Oggi, quando mi sovviene il ricordo di quella notte, penso sempre che se avessi usato un altro tono, in un'altra situazione magari più romantica...non so....

.

In quell'alba di trentanni fa morì la nostra amicizia, dieci anni prima che morissi tu.

Ti sei sentito rifiutato forse, il tuo leggero astio quando ti rivolgevi a me, lo lasciava pensare. Ma la vita ci ha riservato destini avversi per quanto diversi.

Di tutte quelle scorribande rimane una strada lunga, che ha trasportato le nostre fantasie e quel muro, contro il quale ti scaraventarono, precludendo per sempre ai tuoi occhi di assorbire i colori della vita.

 

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