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Nove lettere magiche

Nove lettere magiche
 
-     Mi fanno male le gambe. –
-     Non me ne parli, guardi! Certi giorni ho una tale pesantezza… -
-     E le braccia. –
-    …che quasi non riesco a camminare. Come dice, le braccia? Oh, sapesse le mie,  
      un dolore, ma un dolore… -
-     E la testa. –
-     …che non ti dico. Anche lei con l’emicrania? Dei giorni mi scoppia, quasi quasi  
       mi ucciderei… -
-     E i coglioni. Solo quando mi girano, però. –
-     …??? –
-   Ho il Parkinson. Non si preoccupi, però, non è contagioso. Non dovrebbe, Credo. –
Una parola. Nove lettere. Magiche. Vi creano il vuoto intorno, soprattutto se rafforzate il concetto con il termine “morbo”.  Finalmente potete mettervi a sedere, nella sala d’aspetto del vostro dottore, senza essere costretti a un serrato scambio di opinioni sui vostri e altrui malanni.  Il veloce colloquio riferito all’inizio, intrattenuto con una signora afflitta dalla “sindrome della carta assorbente” ne è la riprova. Pur nella compulsione di diagnosticarsi tutti i mali dei suoi vicini si è dovuta arrendere, e di fronte alla mia impudicizia non ha potuto fare altro che andarsene indignata, regalandomi un “Li dovrebbero tenere in isolamento, però” prima di uscire. L’unico vero inconveniente consiste nella probabile cattiva opinione che per forza si fanno di voi gli eventuali osservatori a distanza, nel vedervi pian piano rimanere da soli, abbandonati dai vostri vicini. Vi va bene se non vi denunciano per l’uso di “armi di disostruzione di massa”.
Il neurologo che per primo mi diagnosticò tale malattia, nascondendola però dietro il meno sconfortante appellativo di “Sindrome Extrapiramidale” non riuscì a nascondere il proprio imbarazzo di fronte alla mia richiesta di chiarimenti, tentando di uscire dall’impasse parlandomi di disfunzioni dei movimenti volontari e di quelli involontari.
 
-      Le prime sono le paralisi. Non si preoccupi, non la riguardano. –
Lo credo bene, visto che avevo raggiunto l’ambulatorio a piedi.
-      Per il secondo tipo, prima di pronunciarmi dobbiamo fare dei test. –
Concluse il discorso fissando un nuovo appuntamento, lasciandomi nell’incertezza del non detto ma appena accennato, del “non è possibile, ho solo quarantaquattro anni” che lungo la strada del ritorno a casa cominciava a farsi largo nel tentativo di arginare una disperazione che  cercavo di allontanare.  Bastò digitare il nome di quella strana malattia per capire che il mondo, così come lo avevo conosciuto fino a quel momento, non mi apparteneva più. Ero già entrato nel dopo. Il mio primo giorno nell’era del Parkinson. Oggi, che sono giunto all’ottavo anno d.p., quando ricordo quella giornata, sorrido. Forse sono stato il primo al quale l’esatta diagnosi del proprio male è stata fatta non dal medico, ma da Google.
 
-       Come ti senti? D’umore, dico. –
-       Come mi sento? Come uno che ha vinto la lotteria. Al contrario, però. –
-     Bella la tua definizione. Non avevo mai pensato alla malattia in questi  
         termini.–
-        Ne vuoi un po’?  Ti affina la mente, sai? Almeno quella che ti rimane sana. -
Sostenni questo colloquio con un mio amico psicologo un paio d’anni dopo l’insorgenza della malattia. Mi venne a trovare una domenica pomeriggio d’estate, e passammo la serata insieme. Mi chiese se avevo voglia di parlare di me, di cosa pensavo e soprattutto, se avevo smesso di fare progetti.
-       Progetti? Chi si può permettere di fare progetti, oramai. Come il mastro  
        muratore, faccio scarabocchi sui muri per fissare quota e direzione, poi
        stendo la malta e comincio a mettere i mattoni. Uno dopo l’altro, costruisco
        le mie giornate. E penso. A tutto ciò che non ho avuto tempo di pensare
        prima. Sai, la storia del tempo è una stronzata. Ho trascorso la prima parte
        della mia vita a costruire alibi per giustificare la mancanza di tempo, che in
        realtà era una mancanza di coraggio. Sai cos’è che veramente mi crea disagio
        di tutta questa storia? È mia nipote, che mi guarda brutto perché crede che io
        faccia lo stesso con lei. Come posso spiegarle che questa non è la mia faccia,
        ma una maschera che mi è stata incollata addosso? –
-      Provaci. –
-      Già. Ha tutta l’aria di essere un altro alibi. –
Quando ci salutammo, dopo cena, gli chiesi di rispondermi sinceramente alla domanda di come mi avesse trovato.  “Non bene” disse. Lo ringraziai.
 
Nell’ufficio di fianco al mio, quando ancora lavoravo, c’era un uomo più o meno della mia età, costretto sulla sedia a rotelle. Ogni volta che si affacciava sul corridoio una moltitudine di persone si precipitava a proferire ogni tipo di aiuto, con sua grande costernazione. Più volte sono stato tacciato di insensibilità perché non facevo altrettanto.
-       Lui non chiede aiuto.  Non vi accorgete, ma lo state umiliando. –
Naturalmente venivo messo a tacere. Dagli altri, però. Lui mi guardava, senza esprimersi. Solo, piegava un po’ lo sguardo, come per dirmi qualcosa.
Ora so.
Mi stava ringraziando.
 

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