Guitto | Post comici, demenziali, ludicomaniacali | Marco valdo | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Guitto

Era un ignorante, però aveva il naso camuso, gli occhi che davan ragione a Darwin e la sua fonte d'ignoranza la nascondeva nello sfuggente della fronte.
Quindi non si parla di limite, di consapevolezza di limiti, si parla di ignoranza attiva, partendo dal vuoto, si sostenevano nel loro rigore certosino, immani cazzate, tutte supportate da un filo conduttore.
 
“Metastasio, giungi a me, ingravidami di polipi, dammi la ricetta del castrato con la romanina, affinché io trapassi a miglior vita”
 
Faceva l'attore, si scriveva i testi, ingarbugliava parole, l'unica regola fissa era la parte femminile, che si doveva incollare ai glutei della stellina di turno, il resto era guitta ignoranza e sfacciata di culo. Aveva consumato i pochi neuroni per confezionare una decina di opere pregne, che conservava con reliquiosa gelosia, le stiticheggiava ogni qualvolta veniva messo in dubbio il suo talento.
 
“Mai morsi la fame, non ebbi mai a dire “bisogno”, che di lardo e strutto ero fabbrica. Vita che oltraggio mi apparecchi, ora che di cinta ha'i tutti buchi contato, perché mostri ora le magre terga, vuoi farmi or scontare tutti i tuoi balzelli?”
 
La ricetta era sempre la medesima, il filo conduttore dell'assenza, si inanellava il naso dello spettatore con veloci suggestioni e lo si trasportava in giro come il bue grasso al mercato di Carrù,
non dandogli la tregua necessaria alla presa di coscienza, facendolo girare prima che dicesse coglione, facendolo dubitare di averlo detto o pensato.
 
“Guinea patria amata, dalle bionde chiome di franca madre, sulle rive del Gambia bagnai le magre cosce, bissò il traguardo dei vent'anni, il mio ultimo sguardo a te!”
 
Infatti gli astanti stavano, fessi dal non capire e ancora avvolti nel fumo dell'ennesima minchiata, che altra ne pioveva, come nebbia in Val Padana, ammutoliti e confusi, cercando di valutare un inesistente quanto, non trovando numeri, spaccavano gli zeri con le mani, facendo rumore di applauso.
 
“districo le giumente trine, nell'ora del galop, op, op, mercanti, samarcandi, vedeste l'ora della mia morte, oh, oh è qui no, è qui no”
 
Talvolta le intruppate erano dure da digerire, servite in vecchie gavette di alluminio, bombate dagli abusi, andava allora per le mense la stellina a portare in giro la mercanzia, il bianco nascosto al sole, un roco puttanesco alla voce, il diametro misurabile delle aureole, si ingoiava il tutto a colpi di tosse, aspettando il dessert.
 
“Avanti, guarda il moccolo, illumina il venire, gogliardo gagliardo, stretto al gagliardetto, accomunami ai tuoi intimi, sproloquiami, che di ber le tue facezie mai mi beo, andiam a introiettar la notte, slarghiamoli i confini”
 
Nel reiterare il delitto, non dava tregua il suo dire, come cane d'aia che insegue la sua coda.
Estatici dietro ai mistici, come quarta parete, stavano ad osservare l'oblò sul lavato, nell'attendere un buco di pedalino, un foro di canotta, l'uscita di una quarta.
Voleva il saggio trarne messaggio e limpido di cuore e di mente, cercava nel frangente degno appiglio, ma non per sbaglio non ebbe consiglio, che non si avvide, questo fu certo, che ha scriver la parola fine, fu sempre la criminale mano.
 

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