Un piccolo ricciolo di merda di cane | Prosa e racconti | gianbarly | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un piccolo ricciolo di merda di cane

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La vasta sala del ristorante non è molto affollata. Giusto qualche coppia, un paio di gruppi di uomini d’affari, alcuni avventori singoli. Un pallido sole illumina le vetrate, in questa giornata di inizio primavera. I camerieri si muovono, silenziosi e precisi, secondo uno schema ben collaudato.
Valerio è solo al suo tavolo, in paziente attesa di essere servito. Conosce le regole del posto: l’unica scelta concessa è quella di una scodella di tortelli di magro come apertura, prima del Gran Bollito alla Piemontese. Rigorosamente servito nei modi e nei tempi dettati dal padrone del ristorante. Che più che un locale è un tempio, la cattedrale dove si celebra il rito di questo piatto sublime. Chi viene qui è consapevole di entrare in un mondo particolare, di far parte di una cerchia, di portare il suo contributo alla gloria del Bollito. Valerio sa tutto questo e lo rispetta.
Ma la sua attesa è venata da un pesante senso di oppressione, che frena l’eccitazione di un rito che si ripete. Tutti gli anni, di questi tempi, lui si concede questa scappatella dai suoi doveri, dalla famiglia. Inventa una scusa e si eclissa per una mezza giornata. L’unico tempo, in tutto l’anno, che dedica veramente a sé stesso. L’università e le molte incombenze familiari non gli lasciano molto spazio.
Il carrello con il suo prezioso carico di carni fumanti fa lentamente il giro dei tavoli. Valerio lo segue con crescente apprensione, implorando in cuor suo che faccia presto, che arrivi finalmente il suo turno di essere servito. Ogni minuto che passa gli sembra un’enormità, un tempo dilatato, sottratto a qualcosa di più utile. Il senso di colpa gli irrigidisce i muscoli. Non è facile, per lui, essere qui. In questa maniera, poi, avendo mentito alla moglie. Tutti gli anni, quando arriva questo preciso momento, questa attesa prima di essere servito, si ritrova aggrappato alla sedia, a domandarsi il perché di un tale sotterfugio. Cos’è che lo spinge a celare il suo desiderio – legittimo – di avere qualche ora tutta per sé? La vergogna, mista all’indeterminatezza dei motivi che lo spingono a farlo, gli lavora dentro, instillandogli un senso di frustrazione che gli rovina la gioia dell’attesa.
Cerca di scacciare questo pensiero. Si concentra sul presente, su quel poco che succede in sala. Il rumore sommesso delle posate, il lavorio incessante per tagliare i pezzetti delle diverse carni, per intingerli nelle sontuose salse ben disposte sul tavolo intorno ai commensali, il gesto di portarli alla bocca. Momento supremo in cui si sprigiona tutta la scala dei gusti. Dalla sua postazione, Valerio può vedere ogni movimento, cogliere l’attimo in cui un’espressione di beatitudine si dipinge sul viso di chi ha appena cominciato ad assaporare le delizie che ha nel piatto.
Segue meticolosamente il lavoro dei camerieri, l’abilità con cui fanno scivolare il carrello fra i tavoli, il modo veloce e scenografico con cui spalancano i diversi contenitori davanti agli occhi estatici dei clienti. La sicurezza con cui affettano porzioni precise di ogni tipo di carne, senza chiedere alcunché; al massimo, interrogando con una rapida occhiata, giusto per regolarsi su quantità e proporzioni del piatto che vanno componendo.
La vita di Valerio è fatta di molti aspetti. Per la sua età ha già fatto una discreta carriera. È un marito e padre scrupoloso, può dirlo senza tema di essere smentito. Soprattutto, è un buon cattolico. Ha sempre praticato gli insegnamenti della religione, trovandone conforto nei momenti difficili. Va regolarmente alla messa, si confessa e prega ogni sera prima di coricarsi. Ha imparato a fare così da sua madre, quando era piccolo. Ben presto ha capito come interpretarne le occhiate gelide di disprezzo, quando faceva qualcosa di male. A conquistarsi piccoli pezzetti del suo affetto con opere cristiane. Ha imparato a temere le regole dettate dalla Chiesa, a osservarne scrupolosamente i riti. A nascondere le sue debolezze. Quando è stato il tempo di sposarsi, ha trovato un’anima che si confacesse a quanto gli veniva chiesto: una giovane donna dai buoni principi, in grado di vivere in armonia con la sua famiglia. Anche lei attenta a non saltare una celebrazione, un dovere cattolico.
Una vita intensa con al centro l’oasi tranquilla della fede. Che ha prodotto una convivenza serena, senza mai un litigio. Un porto sicuro contro le avversità del mondo. Dove, in fondo, tutto è scandito secondo i ritmi del calendario liturgico, lungo binari ben delimitati. Con un’unica eccezione: le sue scappatelle primaverili per mangiare il bollito. Con il loro corollario di ansia.
È arrivato il suo turno, finalmente! In pochi minuti il cameriere gli compone una tavolozza perfetta. Gliela sistema davanti. Piccoli pezzi fumanti, artisticamente disposti sul grande piatto da bollito, rapiscono i suoi sensi. Non si avventa subito a mangiare. Preferisce, per qualche istante, godere di quel momento. Chiude gli occhi e lentamente inspira. L’ansia si dissolve con gli aromi che inondano le narici. Finalmente assapora per intero il motivo del suo sotterfugio. Sente che ne vale la pena, nonostante il senso di colpa. Resta sospeso, quasi senza respirare, per un istante lunghissimo. Poi comincia a osservare con attenzione ciò che ha davanti.
Sette sono le salse che fanno da contorno al Gran Bollito. Già sistemate sul tavolo a far da corona al piatto.
Sette sono i tagli di carne, la punta, lo stinco, la noce e via, fino al pezzo di arrosto della vena, detto cappello del prete.
Sette sono le frattaglie, un tripudio di gusti che culmina con la lingua, il suo pezzo preferito.
Eccola lì, la lingua, un bel pezzo abbondante al centro del piatto, perché il cameriere conosce i suoi gusti. La parte più corposa, quella vicino all’attaccatura. Un capolavoro della natura che l’uomo ha saputo trattare per averne il meglio. Al suo fianco, a completare la parte centrale del piatto, il musetto, con i bordi frastagliati e il colore intenso dell’interno, promessa di raffinata bontà.
Valerio ha un sobbalzo. La sua estasi si interrompe di colpo. La vista gli si appanna. Istintivamente si aggrappa all’orlo del tavolo per non cadere. Chiude gli occhi nel tentativo puerile di scacciare la visione che ha appena avuto. Poi, piano piano li riapre, cercando di mettere a fuoco ciò che ha visto. Nel piatto, proprio al centro, adagiata fra lingua e musetto c’è una cacca di cane.
Un piccolo stronzo, come quelli che fanno i cagnolini da salotto, più piccolo della falange di un mignolo, arricciato all’insù in una voluta che ben si adatta all’artistica composizione del piatto.
Resta impietrito, prigioniero della distonia fra i potenti effluvi che salgono dal piatto e la vista dell’intruso. Non sa decidersi a fare alcunché. Forse dovrebbe chiamare il cameriere, fargli presente il problema. No, no! Non è proprio possibile. Non può rompere, proprio lui, il silenzio religioso della grande sala. Causare un trambusto, uno scandalo. Una ricerca del colpevole. Sarebbe una profanazione troppo grande.
“Fa bene, sa, a fare così!”
Il suo vicino di tavolo, un solitario come lui, si sporge per parlargli.
“Fa bene a gustarselo così a lungo con gli occhi. Io non ci sono riuscito”
Valerio guarda quella faccia sorridente, incapace di fare anche un solo gesto.
“Si vede che lei è un vero buongustaio! Ma non voglio disturbarla oltre. Buon appetito!”
Un debole sorriso riesce a farsi largo sul suo viso, un riflesso delle buone maniere che bisogna sempre avere, anche in momenti come questo. Nessuno si è accorto della questione. Un cameriere gli passa vicino, gettando un’occhiata professionale al piatto, senza accorgersi di nulla. Poi scivola via, assorbito da altre incombenze.
Valerio sente riaffiorare, potente, il disagio che provava durante l’attesa. Ripensa a quando era bambino. A tutte le volte in cui gli veniva negata una gioia. Allo sguardo severo con cui sua madre gli allungava la sua fetta di dolce, la domenica. Una fetta sempre un po’ più piccola di quella degli altri. Ricorda nitidamente gli sforzi che faceva per non tradire il desiderio che sentiva dentro. Come guardava di sottecchi il piatto di sua sorella, soppesando la diversa dimensione di ciò che gli era toccato. Era così ogni volta che si mangiava qualcosa di buono. La giusta punizione per il suo vizio orribile. Valerio è goloso. Sua madre aveva pronunciato queste parole un giorno, mentre tutti erano a tavola. Gli sguardi pesanti di nove persone si erano appuntati su di lui. Le parole della mamma erano una sentenza. Una condanna senza appello. Era piccolo a quel tempo, non aveva ancora cinque anni. E non capiva il perché di quella condanna. Sapeva solo che era una cosa brutta, di cui vergognarsi. Una delle peggiori che si potessero fare al Signore. In seguito, avrebbe capito che il suo peccato era secondo solo a quello di lussuria che, grazie a Dio, non lo aveva mai tormentato.
E ora si trova in questa condizione, stretto fra la voglia a lungo repressa di godere di quel piatto favoloso e la cruda realtà delle feci messe lì, intenzionalmente, per impedirgli di mangiarlo.
Sa di dover fare qualcosa. Non può restare così, fermo, indeciso. Ma non riesce nemmeno a concepire la possibilità di causare un pandemonio. Non può attirare l’attenzione di tutti. Deve prendere tempo.
Un pensiero si fa strada nella sua mente. Cerca di scacciarlo, cosciente dell’enormità della cosa. Sa che sta cercando, con quel pensiero, di ingannare sé stesso. Che la gola, quel maledetto vizio che lo affligge, lo sta portando sulla strada sbagliata. Ma ormai non riesce più a ragionare, a vedere una via d’uscita diversa. Ha un solo pensiero in testa: deve prendere tempo. Far finta che nulla sia successo. E intanto cercare di far funzionare il cervello.  
Prende in mano le posate e, con grande circospezione, ritaglia un piccolo pezzo di scaramella, nella parte più esterna del piatto. Con cura la intinge nella salsa e poi la porta alla bocca. Il sapore intenso gli sale al cervello, dandogli un godimento tale che, per un momento, riesce a dimenticare ogni affanno.
Sì, si dice, se faccio attenzione posso mangiare qualche boccone, purché ben distante dal centro del piatto. Poi magari lascio tutto il resto. Posso ricoprire quella cosa con gli avanzi, nessuno si accorgerà di niente.
La prima volta che è venuto qui a mangiare il bollito, era con lo zio Vittorio. Era stato lui a convincerlo ad andare. Nonostante i divieti.
“Fregatene” gli aveva detto. Lo zio non sopportava la sorella, la sua ossessione per il peccato. Era sempre allegro e pronto a scandalizzare il resto della famiglia. Lo zio Vittorio non viveva con loro, se ne stava da solo in città. Il suo modo di vivere era oggetto quasi quotidiano di commenti. Le loro cene frugali erano condite, invariabilmente, dai pesanti giudizi sulla vita dissoluta di quel frutto avariato della loro famiglia. Un giorno era venuto, l’aveva preso e, senza dire niente a nessuno, l’aveva portato fin laggiù. Era stata la prima volta per lui. In cuor suo ammirava quell’uomo così libero, capace di sottrarsi agli sguardi impietosi, alle regole ferree, al clima soffocante della casa. La prima e l’ultima volta con lo zio. Meno di otto mesi dopo un cancro se l’era portato via. Qundo ci pensa sente ancora i suoi lamenti che rimbombano nella casa, giorno e notte. E vede i volti impassibili dei familiari che lo assistevano.
Forse anche a lui sarà riservata una sorte simile. Mentre continua a mangiare, intaccando via via i pezzi più esterni, pensa che non gli sarà sufficiente bruciare nelle fiamme eterne. Che dovrà cominciare a scontare questa sua dissolutezza già nel corso della vita.
Le sue mani lavorano in modo autonomo dalla volontà. Appena deglutito un boccone, vanno all’assalto del successivo. Ignorando completamente la parte centrale del piatto. Lingua e musetto li ha cancellati dalla vista, sacrificati per poter soddisfare almeno in parte la sua lussuria.
Per scacciare il rimorso di ciò che sta facendo, si sforza di pensare allo zio Vittorio. Gli succede di farlo, a volte, quando il pensiero della sua situazione diventa troppo pesante. Cerca di immaginarsi cosa farebbe lui, come riuscirebbe a districarsi dai tentacoli della coscienza con un semplice sorriso, con un’alzata di spalle. Ribaltando il punto di vista, in modo da far vedere leggero e luminoso ciò che a lui appare invece cupo e pesante come il piombo.
Ci prova, ma non ci riesce. Il senso di colpa lo risucchia implacabile. Osserva sconsolato il piatto, lo vede com’era al momento in cui glielo hanno servito. Perfetto e immangiabile allo stesso tempo. Cos’è la sua vita, in fondo, se non un patetico tentativo di camuffare la sua vera natura, circondandola di buone intenzioni. A cosa è servita la brillante carriera universitaria, il prestigio conquistato un pezzetto alla volta, lo sforzo enorme di dimostrarsi un buon marito, un buon padre. La disponibilità con tutti i componenti della grande famiglia. A che sono servite tutte le energie spese a visitare un conoscente in difficoltà, a servire i pasti alla mensa dei meno fortunati. Nemmeno a guadagnarsi la stima dei suoi familiari. Perché a loro non poteva mentire. Sapevano cosa celava quella barriera di buone maniere.
Ormai ha mangiato tutto quello che era possibile mangiare. Nel piatto restano i due pezzi principali, tenuti insieme da quel piccolo ricciolo di merda di cane. Che è lì, reale e imbarazzante, a ricordargli quale sia la sua reale natura.
Ha un moto di orrore, mentre il coltello incide una piccola porzione della lingua. Poi un pezzo di musetto. E ancora la lingua intinta nella mostarda. E il musetto con la salsa verde.
Nel delirio di quell’atto finale vede il compiersi del suo destino. Tutto gli è chiaro, ora. Ed è giusto così. È la logica conclusione della vicenda, quello che merita. Non ha più ansia. Il resto del locale sfuma in una nebbia indistinta. C’è solo lui e il piatto con dentro solo i due pezzetti di carne uniti dal simbolo della sua punizione. Fa un respiro profondo. Con calma raccoglie sulla forchetta l’ultimo pezzo di lingua. Lentamente infilza anche il musetto. Aiutandosi con il coltello sistema l’innominabile sopra al boccone, attento a non perderne neppure un pezzetto.
Poi apre la bocca.

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