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Satisfaction?

“Sei una puttana!” le disse lui, disteso e compiaciuto. “Sì, lo so, sono puttana. Che farci?” Fece lei, ammiccando un sorrisetto d’occhi, furbo, smorzato.
Lui era uno scrittore fallito, che non scriveva alcunché, e, però, un professionista del bicchiere – al quale dedicava più che volentieri tutto il residuato d’umanità e desiderio cui era ancora abile.
Lei, una che cercava al buio una “invenzione” spirituale, o magari estetica, che la traesse dalla tragica catalessi di una vita subito dissipata in un’infanzia da crocifissione (quelle dove papà e mamma piantano i chiodi!), e poi spurgata nella fogna dell’immolazione, del sacrificio del corpo per l’elemosina di un affetto, quale che sia, sia pure l’etilico fiato d’amore della larva decaduta e distesa lì accanto. Un fiato marcio, cariato, esalato in sussurri affannosi e per niente lusinghieri, in cui il suo male-umore astioso e intelligente esercitava sull’anima della compagna la sua necroscopia ostile, denigratoria, anti-antropologica. E lei lasciava che la dissezionassero, voleva pagarla cara, voleva che qualcuno gliela facesse pagare ed entrava di conseguenza in una sorta di trance estatica quanto più la si batteva e cadeva vittima del rancore e dell’odio altrui, come una martire berniniana, stuprata e beata.
Avevano ambedue cercato conforto nell’arte – lui, tentando di mettere per iscritto il cumulo di rovine della sua vita sgarrata e inconcludente, cosa alla quale aveva sostituito via via la mescita pure sgarrata e inconcludente di fiumi di robaccia nel suo straziato gargarozzo; lei, dedicandosi invece a meteorici colpi di fulmine culturali, inconcludenti pari e patta come le passioni del suo partner, tipo: le lettere slave, lo studio del flauto, l’esoterismo, l’arte tessile, eccetera.
Tutte queste attività erano, in ambedue, comunque signoreggiate da un sentore di morte e di lutto che, sempre, finiva per avvolgerli in una specie di nube acida, come un mordente che corrodeva le loro anime e li gettava nell’angoscia di amplessi infelici e senza amore, e in cui, anzi, l’unica forma ravvisabile di amore, stava nella disperata violenza delle loro effusioni.
“E’ perciò che ti amo. E’ così. Ti amo così.” Disse.
“Perché sono puttana? Perché faccio la puttana?”
“Esattamente” Fece ancora lui. “Ed è contraddittorio amarti così, sì, contraddico al mio amore dicendo di amarti per quel motivo…”
“Ma io sono una puttana!” Lo interrompe lei, mezzo seria e mezzo faceta. “Sono la tua puttana! Dimmi di fare tutto quello che vuoi. Sono tua, ti sono schiava. Battimi, fammi strisciare per terra, fammi fare qualsiasi schifo… quello che vuoi! Questo è il mio modo, il mio motivo per amarti. Tu usami. Sì!” Dice convinta, avvicinandosi a lui. “Usami come.. che so, uno straccio per lavarti, ti prego…” Continuava, incominciando ad accarezzarlo. ”Ti… ti laverò i piedi con la mia lingua, se vuoi, ma tu prendimi, senza scrupoli. Prendimi forte… fammi strillare di dolore… e di piacere…
Ora incominciava a baciarlo e a leccargli il collo come un gelato.
“Non è questo” Le risponde. “E’ che ciò che io desidero da te è impossibile… come posso volere per me e amare una puttana, se questa è tale proprio perché non è di qualcuno?… Un puttana non è fedele per definizione… e quindi… penso… “ E tace, come smarrito in un sogno cattivo e spettrale, che vede lui solo.
“E allora?”
“Noi finiremo per farci male. Sul serio, voglio dire. Finiremo per ferirci l’un l’altro, fino a creparci…” Guarda fuori dalla larga vetrata sulla parete, guarda alla luce diafana e sporca che di lì filtra, poi svuota il bicchiere e abbassa lo sguardo.
“Vieni qui,” Gli fa lei, tirandolo a sé. “Vieni qui. Vienimi sopra. Schiacciami un po’. Fammi sentire addosso il peso dei tuoi muscoli duri. Dai, su, sbattimi chiavami. Fa il padrone. Ordinami dove vuoi entrarmi dentro: obbedirò.” Aggiunge poi, guardandolo dritto nelle pupille. “Allora?”
Ma lui la guarda grave, in ginocchio sul letto, accanto a lei, marmoreo e latitante, come la statua di qualcuno che non c’è. Lei si fa sotto, gli si strofina addosso, lo tocca, lo bacia, lo spoglia mezzo, infilandogli le mani dappertutto. E lui vacilla, comincia a cedere, finché decide di fregarsene e si abbandona a lei e al suo corpo che chiede violenza e sottomissione…
 
Si dà cosi luogo ad una pantomima sensuale in cui tentare di distinguere tra la nausea della vita e l’amore di e per qualcuno è più o meno improbo. Il desiderio assume la maschera dell’abiezione e monta in cattedra un tale grossolano equivoco da far sorgere come piacere ciò che invece viene mostrandosi come catastrofe, come abdicazione, come apostasia dell’intelligenza davanti alla coazione a ripetere della pulsione.
Lei gli chiese allora di inventarsi qualcosa, di farle fare qualcosa, di architettare una qualche sconcezza, che razza di scrittore era altrimenti?, ch’ella avrebbe immediatamente esaudito con gioia e passione. Si sarebbe sottomessa a qualsiasi sfrenatezza, piegata alle voglie più infami, andando in orgasmo al pensiero del piacere che era in grado di suscitare nelle carni del suo partner semplicemente flagellando le proprie.
“Insultami. Fammi male.” Gli disse. “Fammi sentire che sono una troia, schiava tua, della tua violenza, del tuo sesso… di questo…bastone…“ Aggiunse accarezzandolo “…che adoro…” …e baciandolo.
Così che, una volta accesa la sua antica “lampadina” creatrice, egli cedette ancora di più e, deposto il suo umanesimo, si sbizzarrì in una tale fantasia hard, che non avrebbe permesso di fare al suo cane, anni fa, ciò che invece adesso ingiunse di fare a colei che diceva di amare. E lei obbedisce. Lei esegue, tremando di brividi arcani e antinomici, cui è difatti negato il varco della coscienza e lei stessa non concepisce nemmeno il grado e la specie delle sensazioni estatiche e insieme, come dire?, sabbatiche che le formicolano dentro, cercando espressione in una sorta di fluire fuori dalla sua vagina che, le sembra, andare a fuoco; lei esegue impazzita e diligente, in preda a una lascivia feroce, che le infonde la pazzesca voluttà di sentirsi puttana tutta, dappertutto, mentre fa la brava bambina obbediente. Sì, una bambina sozza e puttana, ecco quello che vuole che si sappia di lei, o che almeno gli uomini sappiano di lei.
 
Ha ripreso il bicchiere, lui, ora. Lo riempie. Sta seduto sul letto, la schiena contro il ferro battuto della spalliera. “C’è come…” Mormora malinconicamente. “…una specie di lessico, di glossario-femmina. Là c’è pure quella parola, puttana, … sì. Ma mica vuol dire troia o che cacchio ne so. No. Significa: disperazione… Ecco dov’è che ti amo, ecco il perché, la spiegazione. Non amo una puttana, no, amo la tua disperazione, il tuo disprezzo di te stessa che ti fa puttana. Te vuoi che si pensi male di te, ecco. Vorresti che in tutto il quartiere, quaggiù, si dicesse di te: ecco, lì ci abita una troia, una che la dà gratis, quando non sai dove sbatterlo, vai lì che quella te lo prende subito e dove vuoi. Vorresti che quando qualcuno ti guarda, capisse subito che la dai facile, che sei sempre pronta a toglierti le mutande e che pensasse di te quanto sei puttana, quanto sei viziosa… non è vero?”
“E’… è così” Rispose lei, abbassando lo sguardo. “Però adesso sto solo con te, sono solo tua…”
“Sei…” Riprese lui, come continuando lungo un filo mai spezzato. “sei quasi orgogliosa di questa nomea, quando trapela, no? Ti senti eccitata quando ritieni che tutti i galletti della zona sanno che c’è una con le cosce sempre aperte, pronta a farsi fottere o peggio, e che questa smanettatrice, questa succhiatrice, questa macchina da fottere sei te, no?…” Ora tace un poco, mentre gli scivola una sola lacrima lungo il viso segnato e squamoso. Gelida, funerea.
“Ecco cos’è: noi amiamo le nostre reciproche disperazioni. Finiremo male…” Dice. “Prima o poi accadrà. Verrà un pinco pallino qualsiasi e tu aprirai la porta e magari ti sorprenderò con il suo…coso in bocca…” Adesso ci piove un po’ di più dai suoi occhi e lei non scherza più, si avvicina e cerca di ammansirlo e di correggerlo altresì: “Ma che dici? Ma che cavolo ti viene in mente? Ti sbagli. Non è vero!”
“E se non sarà così, finirà anche peggio, ecco.” Riattaccò il piangente. “Non mi riuscirà niente, con te. Sarò trascinato anch’io in questo “cannibalismo”, in questo nichilismo, Non potrò frenare. Non riuscirò a raddrizzare questa piega sadica e finiremo male uguale, anche da soli, senza tradimenti!… Un.. un giorno mi chiederai di farti così male da abbatterti, ecco… vedo già i titoli del giorno appresso: alcolizzato sopprime sgualdrina, ah ah, quasi mi fa ridere, ah ah ah… “ Ridacchiò fra le lacrime. Lei lo strinse tra le braccia e: “Ti sbagli…” disse, versando anche lei il suo obolo liquido dagli occhi. “Ti sbagli. Niente è già prescritto e non lo sa nessuno quello che accadrà anche solo fra un minuto. Noi siamo dannati, magari, è vero. Siamo malati e non possiamo guarire, ma anche le malattie, qualche volta, finiscono da sole.” Disse. “Nessuno sa perché, nessuno…”.
 
E questa storia non finisce, si ferma qui. Perché, se finisse, finirebbe con la morte e l’apocalissi, mentre invece sappiamo, e ci ostiniamo a sapere, anche all’occorrenza fingendo, che da qualche parte un lieto fine è sempre possibile, che un mondo migliore è possibile. Grazie.
 
 
*Racconto pubblicato nel 2004 da Bocca Editori - Milano.

 

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