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Compendio in quattro poesie e un racconto sul mio senso della Morte e della Vita

È raccontando a sé stessi
il fallimento della propria moralità
che si diventa buoni cristiani.
In un abisso scosceso,
non mentendosi più.
È dal liquido amniotico
che ci sviluppiamo come peccatori,
dalle fantasia su nostra madre;
il denaro, il lusso,
gli spaghetti alla bottarga.
Poi ci sono uomini
che si sentono perfetti.
Uomini che non ci pensano su.
La mia ambizione è quella di diventare
come una spogliarellista
di un night di Taormina,
che lentamente mostra
al pubblico voglioso
ogni lembo della sua carne infantile,
e le cicatrici sottocutanee,
le vene verdi-azzurre.
Voglio arrivare a dire
con il mio corpo nudo
rivolto verso la platea
“Io sono. Io sono.”.
 
*
 
La sensazione è quella di essere
tutti tirati in ballo,
tutti costretti a piroettare
per un tozzo di pane, così.
È che, dentro questo sciabordio,
ci si scopre isterici troppo presto,
molto prima di capire
la morte che s’allunga.
E, in fondo, qual è il senso?
Ci si da a degli stupefacenti diversivi,
a delle gargantuesche bouttade.
Tutto per imparare a non pensare,
per un tozzo di pane, così.
 
*
 
C’è una certa sufficienza
nel sentirsi felici.
Come stare in Paradiso
col serpente nell’aria.
In tanti confondono
felicità e consolazione.
E poi l’ansia sottopelle
sotto ogni entusiasmo,
l’insoddisfazione dietro
l’obbiettivo raggiunto.
È tutto solo un lento
affaccendarsi verso la morte.
Triste destino.
L’uomo. Il mondo.
 
*
 
La mia anima è crepata
di follie.
Così la mia chimica,
capitello levigato
nella pietra
che si sgretola
di T.S.O..
È facile imparare
la saggezza
per uno schizo-affettivo;
si diventa estranei
al diversivo,
perché s’impara a dissuadere
la felicità
dalla sua funzione d’ottunderci.
In fondo
è tutto discesa,
pozzo indicibile,
disperato senso della vertigine.
C’è da sottomettersi al buio,
da diventare bigami
nella relazione con conscio e inconscio.
Gli occhi sono quelli
dei sessantottini,
ribelli e funzionali alla lotta,
la scelta quella di non scegliere.
 
*
 
 
Allora, 2/3 anni fa, dopo vari ricoveri e una nomea non certo carina (nell’universo arrivista e paesanotto di Messina), era giunto il tempo di darmi un tono, una severità. Ero poeta, questo lo sapete, in un momento in cui i sintomi erano molto acuti, ed ero in un periodo di forma straordinaria,  in una vena surrealista e visionaria. Guardavo molti films. Sebbene ci sia qualcosa nel cinema classico che m’attiri (penso ai 400 colpi o a un certo Chaplin) c’era un film, allora, che non riuscivo a togliermi dalla testa. The Tree of Life. Mi tormentava. Ero in una fase convulsa, in un periodo di grande confusione e progressivo distacco e guardando quel film era come se il mio senso del sacro si fosse destato da un angolo sepolto di una vita dissipata. Bevevo molto. La Tennent’s. Il whisky. E anche qualche volta il vino. E sbroccavo facile di cervello. C’avevo la paranoia che m’assaliva. No che non pensassi a Dio; ma ci pensavo in un modo superficiale, marginale. E allora tutto quel panteismo m’ha come avvolto. Le facce quotidiane di Brad Pitt. La grazia della Chastain. La solitudine di Penn. La morte. La vita. E tutta la mia follia.  Era il riempimento d’uno spazio vuoto d’angoscia. Il filo che ti ricollega alla fede in un momento in cui la speranza è una forza trasparente. Era un film di cui avevo bisogno. Che mi terrorizzava e mi attirava. E Malick non si presentava alle interviste, appariva imperscrutabile, come il suo cinema, così filosofico, mistico, sussurrato.

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