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Due poesie

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Sono un estraneo dentro la mia terra.
Un profugo con un ukulele usurato
che cerca il suo falò.
Capitombolo nella disillusione,
nel gusto acidulo
d’una pinta di liquore meridiana.
A me i sogni m’appaiono
tutti come una cosa perversa
e sono stanco di barare
a tutto quest’insulso gioco della vita,
credendomi un bohemien,
credendomi il migliore di tutti.
Io sono soltanto uno stronzo taciturno,
un’alga riflessiva.
Non è più tempo di fare gli eroi.
D’ambire a questa o quella diversità.
La vita se ne va.
È fatta d’una sostanza molle, la vita
e fa la puzza dell’urina.
siamo tutti un po’ troppo carucci
agli occhi della sua crudeltà, amici.
Ci strappa via dalle fantasticherie
troppo presto,
quando siamo ancora angeli
persi in qualsivoglia oblio
e c’inventiamo favole
sul mondo come vorremmo che fosse.
Troppo presto,
mentre su tutto s’affaccia
un alone scuro di malinconie verticali,
mentre noi diventiamo parvenue di nuove insignificanze.
Vorrei mantenere la vita all’altezza
delle mie caviglie
e diventare bravo nel comprendere la morte,
ma sono solo una buffone,
una maschera che asciuga le sue lacrime.
 
*
 
Ragioniamo in termini di spirito.
Ascoltiamo le voci mistiche
della nostra incompetenza di vivere.
Nascere è il vero inconveniente.
Veniamo sbattuti al mondo
come automobilisti strapazzati sul cruscotto
da una brusca frenata.
E conosciamo solamente esodi,
estraneità, coni d’ombra.
Ogni poeta fa una lotta verticale
per scalare la vetta,
ma la poesia è solo un vezzo
di velleità oblunghe non richieste.
L’ars moriendi dei latini.
Ci sono cose più serie,
concretezze, roba spicciola
e bisogna sempre ragionare in termini di semplicità.
Poi bisogna sempre imparare dal basso,
i bambini, ad esempio, tengono le loro forchette
in maniera disastrosa,
per poi diventare professionisti
nel divorare i risotti.
È sempre una questione di stile.
Anche una poesia irraccontabile
ha dietro di sé il prodigio della tavola,
tutta la vita dell’Arte
racconta storie di glicemia altalenante.
 
 

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