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Il vento.

Il mondo sta rotolando lento e inesorabile in un cupio dissolvi forse inedito dai tempi della caduta dell’Impero Romano. Quel mondo, che non era riuscito a entrare in quello affiorante del mercato  medioevale, restando confinato in una economia militaresca e predace, era affondato come un transatlantico troppo antiquato e pesante per galleggiare agilmente sui flussi reticolari del nuovo mondo commerciale. Servivano barchette più agili e veloci, per questo il successo arrise secoli dopo ai Comuni, e non agli Imperi… Se mettiamo in rapporto la fine del mondo antico col presagio di fine che attanaglia i nostri giorni, sentiamo un’angoscia irreparabile, perché non sappiamo assolutamente cosa ci muoverà incontro oltre la caduta degli architravi economici della modernità. Non lo sappiamo se potrà esistere qualcosa al di là dell’abbattimento dell’ultima divinità ancora in trono, il dio-denaro. Cosa metteremo al suo posto? Un Dio tout court, pregresso, rifatto, riciclato? Un non-Dio ateo cinico e rapace, buono solo a spargere la cenere dell’espiazione su un mondo cannibale, arresosi davanti alla propria irrimediabile bestialità?… E se non è decadenza questo…
Ciò che abbiamo voluto per tutta la vita è stato cercare di porre argini ragionevoli alla tremenda inclinazione umana alla violenza irrazionale, al lasciarsi andare a pulsioni furenti, contrarie ad ogni ragionevolezza, e anzi ostili al raziocinio, quasi oltraggiate dall’ingerenza del meglio all’interno della loro acre frenesia. Questo volere le tenebre, questo moto recalcitrante, viscerale, quasi animale al dovere del rigor logico- un dovere che, come essere e come logos, non solo ci concerne e ci coinvolge, ma che coincide con ciò stesso che siamo, compreso quel lato buio che vi si oppone. Ma infine, perché questo lato oscuro? Da dove viene e cosa fare?
Prendiamo in esame uno di quei neri carnefici scriteriati che appaiono oggidì sui mass-media di tutto il mondo. Cosa si vede? Un pazzo sanguinario assatanato che brandisce una scimitarra sulla testa di uno pazzo di paura, ma come lui, uguale a lui, ossia di un suo fratello della specie umana. Si capisce che prova una specie di euforia sadica, in quel gesto, che sembra come sollevarlo dalla sua bassezza, dalla sua mediocrità, come se compisse un tale salto di qualità da trasfigurarla quella sua vita bassa e mediocre, da innalzarla ad un pazzo valore che riluce soltanto nella sua pazza idiosincrasia. È ovvio che non capisce un’acca. Se anche una mezza tacca vigliacca e sanguinaria come lui, vincesse, che sarebbe? Come potrebbe mai gestire alcunché, con la sua testa nulla e le mani lorde di sangue? Come potrebbe mai occuparsi, mettiamo, delle vertenze sindacali, delle pensioni, dei mezzi pubblici, dell’illuminazione stradale? Ce lo vedete? No, non ce lo vedete. E immaginate la stessa cosa che immaginano tutti: se vincesse, i suoi stessi compari lo massacrerebbero, non potendosene far nulla di un macellaio asino e violento. E in più non può vincere. Lo sa anche lui: prima o poi arriveranno i missili dal cielo e lo annienteranno. Dunque, perché lo fa? “Per la sua fede.” dirà qualcuno. La fede? Quale fede? Uno così ragiona come il famoso drago di Komodo: divorare tutto quello che si muove. Quale Dio, quale fede può presiedere a un tale cannibalismo? Quale mai divinità può giustificare e anzi sponsorizzare una consimile “porno-macelleria”? No, niente Dio. Il pazzo, là, il boia-maiale se ne strafrega di dèi e di culti. Ciò che davvero gli preme è una fame di potere parossistica, paranoica, che movendo da un eccesso di disperata inettitudine, non solo lo riscatti davanti al mondo, ma che ne esalti la delirante onnipotenza, supponendo di potersi insediare al posto di Dio. Quindi, non è davvero al servizio di Dio, o Allah, o Brama, o quello che vi pare; ma al servizio di un se stesso captato come Dio. Da qui insorge l’odio nell’uomo, dalla percezione della propria nullità, della propria impotenza, scagliata all’esterno nella vaneggiante inversione dell’onnipotenza. Una specie di make-up psichico, tramite cui l’infelicità di un fallito si decanta a vittoria sadica sulla disfatta dell’autostima.
Già, l’autostima, come tenerla in vita? Qual’è la leva dell’autostima, della considerazione di sé epperciò della dignità umana?. È ciò che dicevamo prima; ciò di e contro cui, chi ne è privo, inizia a covare un odio maledetto: la ratio, il logos.
Se l’umano, nel profondo, aborrisce e non tollera il tramonto del proprio tipo (Nietzsche), come dovrà tollerare e riflettere sul fatto che quel tipo è un mentecatto fallito? Sta qui la chiave dei venti di guerra che imperversano sulla faccia di un mondo già minacciato da catastrofi, inquinamento, scarsità di spazio e risorse. E così, invece di esercitare il giudizio ed il discernimento sul tipo che vorrebbe vedere eccellere nella sua qualità umana e morale, ecco che il soggetto irrazionale, nemico della propria stessa coscienza, si abbandona alla girandola delle passioni, lasciando che il contenuto positivo del logos, che necessariamente condivide, sprofondi nelle tenebre dell’inconscio. E facendo largo soltanto ad una frenesia disperata e colpevole che, quanto più colpa si addossa, tanto più furore mette nel tentare maldestramente di offuscarla con più colpa ancora. E in cieca balia di pulsioni sconosciute, si ostina a conculcare la validità “sublime” del suo tipo, invece così inappagato dall’esperienza, previa l’atroce ausilio della strage, della macelleria. .
Al declino di quel suo modello-tipo l’uomo reagisce con una rimozione, con un non-voler-sapere tanto potente da offuscare i processi logici che sono alla base della grammatica, quindi del sapere. E così non sa che quello che si appresta a fare non è giustizia, e tanto meno un atto di fede, ma soltanto una vendetta contro chiunque altro non abbia subito la stessa umiliazione. È mosso, lo ripetiamo, dal fallimento, dal declino, dalla mortificazione del proprio credo, dei propri valori, della trascendenza che avrebbe dovuto riscattarlo e portarlo in cielo, mentre soccombe in miseria sotto il domino della trascendenza altrui. Di modo che ravvisa in tale simulacro il fallo e la causa della sua caduta: l’imputato è il Dio degli altri, e lui lo deve uccidere. In un rituale morboso che più che alla politica, si approssima al mito greco, tragico e primordiale. Egli subentra così in un mondo completamente simbolico in cui il raziocinio non ha nulla più da condividere. Un mondo preistorico, ove la vita non conta nulla, se non  per la sua trasvalutazione onirica, come nei sogni. E uccidere, nel suo traslato infantile, pre-razionale, perde la sua valenza di atto, per perdersi in un universo di connessioni visionarie con cui la vittima nulla ha a che fare- ma muore davvero, massacrata dalla cieca disumanità dell’astrazione. Anche il carnefice diventa astratto: non è più l’uomo, dentro sé, ad agire, ma la potenza sterminante dell’allegoria. 
Ma il male si manifesta sempre come crepuscolo dell’autocoscienza di chi lo compie. Ossia come contrario del fine che i suoi fautori si ripromettono. Questi cercano l’apoteosi del proprio tipo, e la cercano come intimazione violenta; e invece, così facendo, non trovano che una sorta di palingenesi “a testa in giù”, dove sprofondare in un abisso di oblio.
La storia ci offre numerosi “baratri” di tal genere. Ma quello ovviamente più esemplare è la questione nazista. Là, i Tedeschi obnubilati da un senso di missione millenaria, coltivata dal loro popolo sin dall’antichità e in cui opponevano un’idea di perfezione formale al complesso dei “barbari” in rapporto alla civis latino-romana, supposero che la superiorità di una razza appunto “perfetta” dovesse prendere le redini dell’umanità per salvarne i destini. Ovviamente massacrando tutti gli altri. Ciò che davvero temevano era semplicemente la verità: non esisteva un messia tedesco che avrebbe salvato alcunché. La superiorità di una razza, o di una religione, è semplicemente pura illusione. La questione reale consisteva di quello storico complesso di inferiorità che premeva da tergo i “barbari” (o i “crucchi”, o “les Boches”) stuzzicandoli, dal lato buono, a insistere sulla irreprensibilità etica e tecnica del loro lavoro, e, su quello “cattivo”, sull’altrettanto perfetta “macchina da guerra” teutonica, lanciata alla conquista del mondo. Così, i Tedeschi, grazie anche all’errore storico delle altre nazioni occidentali alla fine della Grande Guerra, rinunciarono alla visione hegeliana di un universo logico-sistematico, e si abbandonarono a quella faustiana dell’inconscio e delle sue terribili pulsioni.
A tal punto, entrò in gioco la schizofrenia: l’uomo vero, quello di tutti i giorni, assillato dai problemi economici e famigliari, scomparve dall’orizzonte germanico. Non ci si occupò più principalmente dei modi per affrontare quei problemi quotidiani. Vi si sovrappose un universo visionario, un proscenio messianico su cui allestire una sorta di parodia feroce, ove i Tedeschi assolvevano al loro compito di salvare il mondo dalle “plutocrazie giudaico-comuniste”. E così la “razza superiore” entrò in un tunnel subcosciente, divenendo facile preda di ossessioni sanguinarie e assurdamente irrazionali, al disotto del che batteva il martello dell’auto-distruzione. E fu questa l’unica cosa che ottennero. La Germania precipitò, com’è noto, in totale rovina. La sua cultura si sperse ai quattro venti. Il cinema tedesco, per esempio, diventò quello americano. La rinomata “scuola di Francoforte” divenne newyorkese. Lo spirito tedesco fu più annientato delle “razze inferiori” deportate nei Lager. Invece dell’apoteosi del tipo “ariano”, si pose in atto la sua Götterdämmerung. 
Altro esempio di schizofrenia autolesionista ci viene dalla cronaca di questi ultimi mesi. Due ragazzine, 14 e 15 anni, diventano “baby-prostitute” per permettersi i lussi scimuniti reclamizzati dai media. I vestiti griffati, l’ultima versione di Tablet, smartphone, eccetera. Subito entra in gioco un parassita, un bastardo che ha fiutato la puzza escrementizia della pecunia (pecunia olet) e ci si tuffa a testa bassa. Le due “vittime” non si rendono conto dell’enormità del giogo che le sovrasta e, come vacche alla stanga, vengono risucchiate in un vortice di affanno e abiezione, che il loro aguzzino chiama “lavoro”. E “lavorano” così di anche e di bocca come macchine industriali ottimizzate, fino allo sfinimento, all’estenuazione.
All’interrogatorio, una di loro, la più giovane, dirà come avesse programmato la sua schizofrenia. “Usciva” da se stessa durante l’”orario di lavoro”, e vi rientrava a fine supplizio. Ecco: è questo che “fa guerra” dentro di noi. La rinuncia al nostro anelito più alto, ossia il logos, per paura (della verità), per noia (della vita), per ignavia (ossia, sbadataggine, pigrizia morale, qualunquismo) a favore di un doppio schizoide che s’abbandona alla vendetta sadica ed inconscia delle “spinte” carnali. Altrimenti detto, quando l’errore travalica i limiti della ragione, se il male è troppo per la coscienza, al punto di non riuscire più ad arginarlo, essa non se ne capacita, non riesce a farlo proprio. E allora è meglio l’incoscienza, meglio la notte del discernimento. Il soggetto-carnefice precipita al di sotto delle proprie risorse razionali e invece di sognare, per fare un esempio freudiano, il “corpo fatto a pezzi”, lo fa davvero in uno stato di estasi visionaria e perversa, ove l’io il rimorso, il dolore e la vergogna sono come in clausura, da qualche parte della mente. E se e quando mai dovessero uscire di lì e il soggetto ridiventasse “io”, anche allora, non potrebbe resistere al troppo male che lo avvolgerebbe, ma non potrebbe più scappare una seconda volta nell’inconscio. E, per mandare giù l’angoscia,  non gli resterà che una sola via d’uscita, un'unica sorte: la stessa, d’altronde, riservata da lui alle sue vittime…   
 
 

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