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Sogno. Prati. Vento.

Prati. Lontano lontano. Fronde mosse, dolci onde. Memoria, ricorda. Le mani corrono sui tasti. C’è musica. C’è sempre una musica. Andare dentro se stessi, al suono di qualche musica. Rintracciati, affondati nel sé, cullati dall’onda, dolce onda, sui prati, sotto le fronde fragili mosse dall’alito che gli soffi sopra, dato che tutto è te. Noi siamo questo paesaggio, questo affresco lontano, questo ritratto di prati e fronde che ridipingono se stesse dentro se stesse. Il quadro è il pittore che si ritrae nello specchio dello specchio dello specchio. Uno specchio antico, con le figure appiccicate sopra come fotografie. Fotografie di prati lontani. C’erano dei prati, verdi, un dì. Grandi prati ridenti coi verdi chiari, puntellati di margherite, che oscillavano come capelli, e cambiavano colore piegandosi sul dorso, e un verdolino ancora più soave si foggiava della forma del vento, e il vento era un corpo carezzevole che scivolava come una dolce immensa carezza sul letto di punte inoffensive dell’erba. Chi era questo vento, se noi eravamo il prato… già, chissà. Questa visuale remota, delicata, appesa a un filo, come un vetro di Murano balugina sull’immaginazione, come un sogno troppo precario per non infrangersi non appena mi tornerà la ragione. E allora non la voglio, la ragione, non la voglio più. Allontana da me questo calice… meglio il vento ignoto, meglio la sua carezza innominata che non manterrà la promessa… Io una volta ero il prato, e tu il vento, mormora l’inquilino dentro la nostra casa, io ero le foglie, tu l’onda. Io ero la terra, tu l’acqua. Ma non avevi nome, così, come chiamarti? Non è rimasto che la memoria, il tuo ricordo azzurro e il mio vecchio autoritratto verde chiaro, reclinante sotto la tua ala gentile, ahimè…

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