Stavamo rimanendo soli.The last morning | poeti maledetti | taglioavvenuto | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

To prevent automated spam submissions leave this field empty.

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • laprincipessascalza
  • Peppo
  • davide marchese
  • Pio Veforte
  • Gloria Fiorani

Stavamo rimanendo soli.The last morning

The last morning
 
“ U cane...”
“ Che ha fatte u cane...? “ Nun tieni famme?
“ Giocava...m'ha fatte ribaltà...”
Rosa. “ Poi u barone...a ruota...ma verament...?"
“ Tenghe sonne si. No...”
" A stu paro tuo c'era venuto u gozz...e tante...!
" Mmmh...a malaria. U mangiari."
" U mangiari? Chiddu s'scimunnite!"
Anche Rosa stava giocando. Ed anch'io: Il gregge, quando le pecore si perdevano...non stavano più unite...giocavano...Il giovane maremmano giocava...U caproni giocava...
Non avevo più fame. Riuscivo solo a fissare la tenda divisoria tirata dal barone mentre gli rimontavo la ruota.
" Rosa..."
" Che vuoi? Dimane ammuninn u campo. Qua, co a ricotta, è furnutu...Tri acri e...in salita...
" Porte a zucca d'u rifugiu...?
" Ecchè? Sugnu a Nera... ie? Acqua, vinu ? Vinu nun ce ne sta, acetu iè...!. D'acqua ce ne scenne, tant è dirupate..."
"  Se fatica finalmen...!"
" Vuoi durmi?"
" Un quarte sultantu..."
" E vacce...!"
" Tu?"
" Iu furnuscu...!"
 
Rosa finì di faticare il mattino dopo, quasi alle nove.
Si stese un'ora sul pagliericcio, poi si alzò per raggiungermi.
Sopra l'agrumeto il padre del primo barone, una volta datogli come donazione per il servizio di soldato prestato a Martino l'Aragonese, aveva fatto erigere ai suoi servi di allora due capanne di fango e canne.
Una, più grande, per gli eredi, la seconda, più piccola, per i contadini servi stessi.
Per contenere i dilavamenti delle scroscianti brevi piogge primaverili sulle sommità degli Elei, l'uomo si era mentalmente progettato, per l'agrumeto, di farlo a gradoni. Copiandoli, pari pari, quale difesa, da uno schema di assedio di accampamenti a città nemiche.
 
Era stato questo l'ordine presente e a venire dato ai servi contadini.
“ Voi continuate a faticà, che a nuie ce pensa a Natura !”
Vivevamo in pace, fuori da ogni battaglia.
 
“ Rosa, ma...?” Le chiesi sul gradino della capanna. “ vuoi dicere a u barone che tue marite è muorto?”
“ Cierto!” Rispose mia madre.
“ Pensave...”
“ U barone?” Le scappò detto, scoprendo i due denti mancanti.
“ Mhhh !”
“ U sape.” Aggiunse lei.
“ Viste, sei agnellini?”
 
Rosa, finalmente, dopo il lutto e la malaria che aveva instupidito sia lei che il marito, rise a bocca aperta, mettendosi una mano davanti alla bocca.
“ Che, li hai fatte tu?”
“ No. U montone ! Ma io...”
 
“ Siente...”
“ Eh! U vuoi dicere verament, Rosa?”
Forse, in questo ultimo figlio, a questo pastore imberbe, al posto del gozzo era cresciuto nel cervello un grano di sale.
“ Mbeh?”
 
“ Te vuoi rispusà, tu?”
“ P'a mmia...!?”
“ Piensace !”
“ E...?”
 
Una gara sportiva.
 
“ Ce vai a servizio...u barone !”
“ Me risposo! Tu nun me fotti a mia! So vieccia!|”
Entrammo nella capanna, che il sole risplendeva.
 
Però, che cervello il pastorello!
La stessa idea che a lei era venuta, passando da garzona a serva in meno di due anni con il vecchio nonno su al rifugio. Non si sarebbe mai concessa. Ma al vecchio maschio l'avrebbe fatto impazzire.
 
“ Saro, tu sì viecciu.”
“ Cumm a tia sugnu!"
 
Rosa cominciava a ridere. Finalmente. Aveva scordato la malaria, la sepoltura, il lutto. Il matrimonio delle due figlie, " u sciancatu. Quel gozzo orrendo. "
Si coprì di nuovo la bocca.
“ Figghiu pottana” Pensò mentalmente, risentendo il gesto del genero del barone risuonare sulle chiappe;  già! Quella persona distinta, il nuovo padrone, passando, le aveva schiaffeggiato il deretano per due volte mentre stava schiumando la ricotta, poi andare di là, sul pagliericcio; tirare la tenda per un riposino.
Lei sapeva tutto, ma era troppo sudata; colava sulla pentola come fosse una fontana, e non si era mossa.
Di fuori, sull'aia, infine, c'era suo figlio che sudava ancora più di lei.
L'unico uomo della famiglia rimastole.
 
Appoggiò sul tavolaccio un tocco di pane e due fette di formaggio della capra. Si erano seduti.
“ A zucca l'hai riempita d'acqua a sorgente? Chiese al suo Saro.
“ Pienza a mangià. Fatico io."
Dopo una tre quarti d'ora circa, quel figlio, con in mano un pesante rastrello di rovere, era già arrivato alla fine del quarto gradone.
Rosa, rimasta dentro la capanna, aveva smesso di pensare.
Si svegliò a tre quarti del pomeriggio.
Spalancò l'uscio della capanna; “ quasi ha furnuto n'acro però.” Pensò, "figghiu bottana" ma lo pensò soltanto.
Per timidezza, per tradizione, non si era mai abituata a parlare in tal modo. Se mai, era stato il genero del barone a permettersi due volte da dietro.
Lei s'era limitata a continuare ad appoggiare sulla supercie del siero il ramaiolo in attesa di conoscere le sue vere intenzioni, facendo conto di nulla.
 
Il figlio d' "u sciacatu,", stava già risalendo verso la capanna. L'indomani, sul campo, per dargli modo di finire ancor prima, avrebbe faticato pure lei.
Quella sera dormirono profondamente. Lei sul pagliericcio, lui al limite del recinto dietro.
Più volte il ragazzo fu tentato verso le pecore più grasse, poi si mise a fissarle; a contarle e ricontarle, ed infine, deluso, s'addormentò.
Rosa si addormentò invece all'improvviso, appena distesasi, risvegliandosi al mattino.
Bevuto da una tazza l'infuso di acqua calda e limone, ricominciò a pensare alle sue traversie.
Il marito, il genero del barone, il carrubo.
Due volte, era stata provocata da un gesto cui non era più abituata.
Questi maschi, questi padroni!
 
Si pensavano padroni, ed invece erano solamente “servi”.
Suo figlio, l'unico con un poco di sale in zucca, l'aveva compreso subito.
“ Va a servizio, Rosa!”
Ma perchè, perché a servizio?
 
“T'ho dico io pecchè a servizio! Si rispose la donna, dopo circa due tazze di succo di limone che le bruciarono in gola. “ Ecche pecchè!”
Per una volta, si rispose a tono, lucidamente. “ Figghiu bottana! Figghiù...Bottana... Io a servizio! !" Como u gatto. Caputo?
“ U masculo, Io...Chidda... Bottana fu!”
 
Sull'agrumeto. Dove l' aveva raggiunto.
“ Saruzzo...Ci pensai...”
“ Pensasti ?”
“ Si...to paro...”
“ Mhh...”
“ Da un mese...rientu...! Forse u dispetto a mmia...!”
“ Mu paro....! U vuoi dicere u barone?”
“ Eh si...!”
“ Fatico io ppe' ttia!”
“ Bravu figghiu!”
“ Ce vado io a dicere!”
“ Fatte criscere a barba. Accussì pari cchiù grando davanti un barone! I mittete a camicia. Ci ho dici che nun ho sapivo!”
“ Cierto...!”
Il paese vicino Piazza Armerina era a una decina di chilometri. Il genero del barone mi rassicurò. Era affezionato a mio padre e a sua moglie. La più buona delle ricotte, dissero, lui e sua moglie. E i migliori aranci vaniglia, disse lei. E gli scuzzuluni? Aggiunse lui dandomi una pacca sulla spalla.
Per un attimo mi fissò la camicia e sorrise alla moglie. Gliel'avevano regalata loro, a mio padre.
 
Riuscii a tornare indietro prima che fosse buio.
Rosa era rimasta ad aspettarmi in cucina.
“ Che hanno ritto?”
“ Tutto bbuono Rosa!”
 
“Dormi qua, sta notte! Parlammu io e te. Me devi dicere!”
Ci distendemmo fianco a fianco sul pagliericcio. Rosa volle che mi togliessi le scarpe. Me le tolsi.
“ T''è piaciute u palazzo d'u barone?
“ Bello ! Che scale!”
“ Ci ho fatto u servizio cinquo anni!”
“ Tu?”
“ Io! A figghia s'arricuorda!”
“ S'assomiglia a mmia!”
“ Cierto! Duo bastardi, ma u barone era accussì, brave, …bbuono!”
“ Che m'ha lasciate a mmia?”
“ ...O sale!”
 
“ Rosa non era incinta, si scoprì. Ma lo divenne molto presto.
“ Chistu è nostu, u nipote veru d'u veru baroni.
“ Ce faccio causa in tribunale! Vogghiu u riconoscimento du sali....!”
“ Brave ! Salù.... bedduzzo....!”
 
“ E comm te farai chiamà..?
“ Salù, e tia Rosa. E a Nera, Nera.
“ Comm, Nera ?”
“ S'è nammurata l''ha saputo ! O Nera o niento... ha bel...ritto. Aggiu caputo ?"
 
“ Na pigura..! ... me pigghiasti... ?"
" Me vuole bbene ! 
" Bene? Dicimmu chi u caproni...mah... s' è ricchiù ....!"
" Commo....? Ne comprammu n'anti...!
" N'anti...? Allora duo!"
 
Ottenni, con sentenza passata in giudicato in cassazione sez. unite, il riconoscimento della paternità, e, conseguentemente, un quarto dell'eredità baronale.
Ottenni il nome, 60 acri ed il podere con l'agrumeto. Da Rosa cinque femmine. E cinque dalla Nera, più un cabron.
“ Chiddu u chiamm u barone!”
“ Zittato, ce fai scoppià a gelusia!”
Per un nulla stava scoppiando uno screzio di visione ereditaria.
A chi il pascolo?
“ A mia!” Disse mia madre. “ O bado io u montone!”
“ O fai per …? Manco nu barone rosa!” Aggiunsi per rispetto della giudice del quintuplo rinvio.
“ A mia!” rispose la Nera. O capruni ? "A mia!"
"Eccu...!"
 
Ma lei, Rosa, era sempre presa da suo “figghiu”. Per il sale.
Tutte le mattine, le notti, dopo i mezzogiorni, mi prendeva a gomitate.
" Saluzzu, famm addurmiri!"
 
Poi allargava le braccia. Fino a rinsavire con tre aspirine, qualche valium e tre dentate su una spalla, sotto le spalline della nonchalance chemise avorio.
Per dire, morì dopo essersi rifatta due volte sbiancare l'incisivo ad est, un anno e un mese prima che il cabron venisse mandato, come un qualsiasi Napoleone, al confino forzato, a Sant' Ibìza.
 
 
 
 
 
 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 0 utenti e 6397 visitatori collegati.