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Il Compromesso di Durval (Cortometraggi)

Era una cosa meravigliosamente esasperante.
Lei sussurrava
ed era chiaro che stesse facendo l’amore.
Lo si percepiva bene,
le pareti erano sottili e allora
come convogli di notte passavano i segreti.
 
Durval dal suo appartamento non voleva ascoltare e non ascoltava.
Sentiva che
quello non era suo marito e che suonava alla porta
ogni giovedì sera
puntuale dopo un’ora che lei abbassava la cornetta del telefono.
E quel tlin era davvero amaro.
 
Arrivava
i bisbigli occupavano la stanza attigua
penetravano le pareti e flirtavano con l’infastidito Durval,
che non riconosceva l’amore che dal dolore.
 
I gemiti divoravano parole morenti,
gli equilibri cedevano a colpi d’obice.
Forse le dita sulle labbra smorzavano il desiderio
e si lasciavano catturare dai denti.
Il desiderio perforava già la gola:
i sospiri inevasi si facevano rauchi.
 
Durval si mordeva le labbra, sudava. Non voleva sentire.
Quell’uomo andava via di notte
sempre in tempo per l’alba,
quando poi rientrava un altro uomo, che
si metteva a letto e dormiva.
 
Silenzio, silenzio.
Era una cosa meravigliosamente esaseperante.
Era nel silenzio che Durval si sentiva in colpa.
 
Il sole che si alzava chiariva quanto fosse inadatto.
Avrebbe voluto con le ore dorate bussare alla sua porta
dirle con circospezione:
“Faccia piano, da me si sente tutto”.
O forse parlare più forte e chiederle:
“Signora, ma perché lo fa?”
O soltanto: “Lei risveglia il mio desiderio,
che è incompleto “.
 
Non ebbe mai il coraggio.
E si sentiva complice.
Un pomeriggio aprendo il portone sentì alle spalle la stessa voce bassa e dolce. Trasalì.  Si voltò
la chiave inciampò nella toppa e cadde.
 
Durval si chinò e dal basso vide le sue gambe toniche,
le caviglie e i polpacci erano stati modellati da un tornio d’oro
e seguì la luce che saliva sulla tibia
fino alle ginocchia.
Era lei. Lo sapeva. Lo sentiva,
era la signora che rientrava mano nella mano con un uomo che chiamava Gustave.
Gustave doveva essere suo marito perché era un mercoledì.
Abbassò subito lo sguardo, si sentì colpevole,
quasi fosse lui stesso il suo amante.
 
Li osservava di sottecchi, si chiedeva:
è sesso, amore, vendetta, tormento, cosa?
Lei aveva gli occhi lucidi e potevano essere sinceri.
Quel mercoledì pomeriggio Gustave
la stringeva forte.
 
Sul portone salutarono per cortesia,
con un sorriso educato.
Non si conoscevano affatto eppure Durval
ne sapeva abbastanza.
 
Durval ricambiò ma non era a suo agio.
Riuscì solo a infilare la chiave nella toppa e nello stesso istante
a guardare lui.
Era un uomo a modo, affascinante,
doveva essere molto ricco:
è il portamento che determina lo stato ma poi
 quelle scarpe di Gucci.
Doveva essere un uomo d’affari.
 
Lui poteva avere tutte le donne del mondo
ma aveva lei ed era felice perché non sapeva.
Durval non aveva donne e sapeva perché era infelice.
 
Considerò l’altra maniera d’essere amati.
Aprendo il portone decise che
era meglio non sapere d’esser traditi.
Per galanteria si fece da parte e disse loro: ”Prego”.
Loro ringraziando entrarono per primi.
La signora apprezzò molto quel gesto.
 
 
 

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