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A Vittorio Sereni

In questa vigilia pesante di anteguerra
una casa promette oggi il pranzo.
Domani non si sa se il suo comignolo fumerà.
Un vento presago di inverni militari
soggiace ancora a dolci primavere
e ci circonfonde
sperdendoci nel suo spiro
al largo dei bastioni.
Il lago si slarga a vetrata
dove il cielo si getta con alberi e monti
moltiplicando gli sguardi, l’orizzonte.
La cadenza dei tonfi staccati dai tuffi.
Le ansie di inevase speranze.
Nella schiarita dall’aria di pioggia
dove fa gomito la tradotta
nel punto in cui tagliata in due dal viadotto
si biforca prima del gomitolo.
 
“L’Italia è una sterminata domenica”[1]
nei corsi, nei bar, negli stadi,
agli empori, davanti ai televisori.
Nessuno sulle porte.
Nessuno alle finestre.
Inezie? No, già i primi indizi.
Facce non ci vengono incontro.
Né occhi al nostro arrivo.
Nessun segno. Né di palpebrio
né di anima viva al nostro esserci.
Come se niente fosse!
 
Tu ricordi, Vittorio, la gioia della
“gente che si chiama tra le valli”[2].
E ti rattrista non vedere
più rimanere sui poggi
questa festa di richiami
e di echi corrisposti.
Ti nuoce non poter scostare
la zazzera d’oro
distesa a velare
ogni stimmate di memoria.


[1] V.Sereni, “Nel sonno”
[2] V.Sereni, “Strada di Creva”
 

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