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Destino

Destino
Placido d’innata sorte il freddo mare;
lì triste e mite dove l’ignora il vento;
solo oltre la rada, argentei sprazzi
sfavillano e volan via.
 
Vide del nuovo mondo apparir le vele
di tre cocci arditi;
sogna che sarà oltre il domani,
anche se il cieco uomo finirà le strida.
 
V’è fulcro, sentor delle sue grazie,
ove cognito s’accentra?
Dunque sia!
 
Mente sfocata e triste
pur nei tuoi pochi anni.
Per te il sogno divaga quanto t’assorti.
Cos’eri e che sarai fuor della tratta
del tempo tuo?
 
Fuggisti dall’usual credere e pensar senza
travagli.
Fosti oltre il dirupo col cuor che balbettava.
Nell’eterno sprofondar del viver tuo;
nel punto che s’annicchia sotto lo sterno;
lì, come chi cade da immensa altura,
trovò appiglio ove poggiare ormai
i malfermi piedi.
 
Era un veliero ardito e bello,
che senza meta sembrava andasse
oltre ragione intende.
 
Tu, memore d’immensa grazia
a condur  le  vele,
prono t’accingesti a mo’ di capitano.
 
Furono sprazzi d’univoco intendimento.
Virai controcorrente, quand’Ella
s’adagiava
fedele e speranzosa.
Migliore intesa a memor d’uom non vea.
Caldi orizzonti li ammiravano
 
 
con desideri immani.
 
Fredde, oscure notti scivolarono
prive di turbamenti, sulla coltre d’acciaio
nell’Eramo connubio.
 
Or vecchio avventurier perché mi canti
di quanto fosse eccelso il vavigar;
di come succo giulivo scorrea nelle tue vene
e quanto l’altra seppe in te colmar.
 
Dimmi, seppur dell’intimo ricordo ancor
T’inebri,
qual’erano i dì terreni che a  te eran cari,
a qual pro vi fu ideal diverbio
del duo che sognò d’essere immortale.
 
Leggo nell’arcigno tuo viso tratti sereni
c’adducano sperar nell’eterno Idilio.
Forse gustavi in terra quel che velato
t’appar si celi oltre la vita?
 
Povero eremita t’illudi a sognar sacri lidi,
i qual t’appaiono ancor che, tu gravoso
strascichi in amara terra.
 
Mortifichi la gioia dei sensi tuoi
quando t’innamori del vago e delle stelle
e se attraversi incolume il dogma della vita.
 
Oramai stanco delle tue astruse rotte,
la nave volge il vavigar per quieti mari.
Tu, forse deriso, forse malato e stanco,
scorgi ancora dall’onda che t’avvolge,
quanta grazia ponga nell’issar le vele
e,  delusa, certo angustiata e stanca,
odia persino chi la seppe amar.
 

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