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Olga

 

 

A Olga

e a Marco Maria

 

 

Olga sentiva freddo, dei brividi salivano lungo la sua schiena, probabilmente aveva la febbre. Avrebbe dovuto misurarla, ma quell’azione era perfettamente inutile, lei era consapevole della sua malattia, meglio non pensarci dunque.

L’eco del treno che scorreva sulla massicciata interruppe i suoi pensieri. Si scosse da questo suo stato d’animo e osservò la scolaresca che attendeva le sue parole.

- Allora ragazzi, nel plasmare la terra, il tratto è certamente importante, ma è la luce la vera essenza del rilievo. Essa si contrappone alla forma prediligendo alcune superfici, negandone altre. Luce ed ombra, questi sono i veri protagonisti del rilievo!

- Come l’alternarsi del giorno alla notte. - Disse un allievo, sollevando il capo dal bozzetto al quale stava lavorando.

- Come una giornata estiva. - fece eco lei commentando sottovoce, mentre si spostava verso la calda pozza di luce proiettata dalla finestra sul pavimento, poi, trattenendo a stento un altro brivido, disse:

- Già, perché la luce è calore, e il calore infiamma i cuori. - Osservò i ragazzi chini sul loro lavoro, poi indicò il bozzetto di una natività appoggiato sulla cattedra e disse:

- Curate in particolare la forma delle mani. Perché è dalla mano che scaturisce il gesto, e il gesto è danza. La mano inerte, è spenta. È la tensione, la vera natura del gesto!

Detto ciò, si avvicinò alla finestra sollevando lo sguardo verso la montagna. La prossima primavera quei sentieri non avrebbero più visto l’impronta dei suoi passi. Un’ombra di tristezza oscurò il suo viso.

 

 

Marco Maria si era appena svegliato. La giornata si annunciava luminosa, le nubi, alte nel cielo, si rincorrevano come gruppi d’aironi.

Si sgranchì le braccia, sollevandole con gesto circolare, fece qualche passo, poi la guardò. Il primo sguardo del mattino era dedicato a lei, ai suoi legni, che lucidi, brillavano di colore.

La sollevò dalla custodia, carezzò la trasparenza ambrata del legno, poi pizzicò alcune corde. Lei rispose con dolcezza al suo richiamo.

Pensò a quanto lei aveva atteso lui, a quando lui era finalmente riuscito ad averla, alla loro unione generatrice di suoni.

Sollevò l’archetto, ne avvitò l’impugnatura, passò la pece sul crine, soddisfatto, la sua mano si chiuse sull’impugnatura dello strumento. Fece scorrere l’archetto emettendo alcune note, strinse una chiave, accordando una corda ribelle, poi iniziò a tirar di corda.

Le note si diffusero nella camera, espandendosi in ogni angolo, come la luce del mattino.

Erano suoni grevi, lenti, simili ad un gorgoglio di fonte. Lo strumento risentiva ancora dell’inerzia della notte. Accelerò il ritmo, interrompendolo a tratti da un pizzicar di corda. Poi il suono greve scivolò via nell’ombra, sostituito da note acute, argentee e cristalline.

Un suono gioioso, che fluiva dal cuore. All’improvviso ricordò le sue parole. Perché la luce è calore, e il calore infiamma i cuori.

Allora, suonò come un folletto, saltellando sulla punta dei piedi e torcendo il busto in ampi semicerchi, tirando sull’archetto.

Suonò con tutto l’amore che aveva dentro di sé, pensando a lei che non c’era più. Tu vivi nel ricordo che porto dentro di me, si disse, perché era sicuro che lei, dovunque fosse, di certo ora lo stava ascoltando.

Il suono rimbalzava sulle pareti, alternandosi e rincorrendosi come numerosi frammenti di un colorato caleidoscopio, trasformando la camera in una scatola sonora.

Soddisfatto, immerso nel silenzio che era seguito all’ultima nota, allentò l’archetto, poi, lo ripose con cura insieme a Olga, la sua viola, nella custodia aperta.

Lo scatto metallico della chiusura esplose secco nella camera, come uno sparo.

 

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