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Noi che faremo l'approdo

          4. Non pensarti è un po’ ucciderti.

 
Vedi bene, Chris, che evoco ombre per ridurre
il rumore dei verbi in questa convalescenza di voci.
 
Avevo già conosciuto il silenzio fino a Plutone - te ne
avevo parlato al museo, ricordi?, mentre premevo
sui piccoli timpani esposti con cautela due reperti
del secondo millennio chiamati ostriche – e ti avevo
descritto  i richiami del sole: tenui, rochi, cauti, a causa
della bassa conducibilità del vuoto.
 
 Il vuoto che priva le masse dei loro umori, il vuoto
che fa perdere i sensi, il vuoto che spesso, anzi sempre,
ti coglie la radice, estirpa dal solco la mammella segreta
della terra, la sua presa sicura di madre, di padre, di corrimano
sul baratro, di parapetto e tenaglia nel luogo;
 e ribalta il tronco, devasta lo spazio fino a creare assuefazione
al lutto, alla perdita di quelle parole notevoli che corrispondono
ai nomi. Nomi che al sole si ammorbidiscono, suoni
che diventano gomme. Piume. Carezze buffe. Per
questo conservo la reliquia del tuo primo bacio, di quella
consapevolezza che il vuoto non era tra noi, né in noi,
ma noi  espianto da continue esplosioni, noi il fuoco,
noi il sole, con voci basse, roche, incaute, scambiandoci
i nomi, gli ordini, i ruoli: padre tu, che mi sei figlio ora.
 

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