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Colori e parole in libertà

Della serie Capo d'Africa, di Francesco Pagni
 a Francesco Pagni

 

 

       Era una serata trascorsa in libreria, un appuntamento all'insegna delle pagine del grande Buzzati. La voce del “Il deserto dei Tartari” rimbalzava sugli scaffali ricolmi di libri, tra il pubblico presente.

      Francesco era lì, con sua moglie, Marisa, sospeso tra i personaggi della fortezza Bastiani. C 'era tutta una distanza temporale tra quell'evento e i primi anni della sua infanzia ma il deserto dove si ergeva la fortezza Bastiani gli ricordava il Sahara, il suo Sahara.

      E il pensiero correva, tornava a quella Tunisi multietnica, tra quei banchi di scuola, dove la prima lingua era il francese (la Tunisia, allora, era ancora un protettorato francese) e la seconda l'arabo (l'italiano lo apprenderà dopo, a sedici anni) e dove c'era, nei suoi passi, tutto il colore e la luce abbacinante del Nord Africa. E le sabbie e le terre che si ritrovano oggi nelle sue opere, di certo sono il ricordo di quei pomeriggi assolati.

      Tra un crogiolo di genti, arabi, tedeschi, maltesi, siciliani e una importante comunità di ebrei, inizia a respirare idee diverse. Gli scambi culturali sono vivi, quotidiani.

Suo padre porta avanti l'azienda di famiglia, di precedente generazione, una falegnameria dove si producevano porte, finestre e serramenti. Francesco inizia, sin da piccolo, a respirare l'odore del legno. A tastare il legno.

       Il legno è materia viva, gradevole, che si lascia modellare, che dà una risposta emotiva al tatto. Materia che viene, sin dall'antichità, trasformata in strumento per le necessità dell'uomo e che, come la pietra, vive in simbiosi con l'uomo. Al seguito del padre, che si reca dai vari clienti, in genere famiglie facoltose che coltivavano enormi appezzamenti di terreno a piantagioni di ulivo, conosce usi, costumi e culture diverse.

«Ero un bambino, venivo coccolato e vezzeggiato. Entravo nella stanze dove gli uomini non potevano entrare. Vedevo arredi, dipinti, ascoltavo storie, culture diverse riversavano il loro vissuto, ed io ero lì ad osservare. »

       Il deserto mostra le sue tonalità di colore, durante il giorno, con il variare della luce. Nascono qui, da questi sguardi di un bambino stupito, le prime fusioni di colore. Un amico del padre, che dipinge immagini sacre per le tombe delle famiglie benestanti, mostra a Francesco la forza della pittura.

       E' una rivelazione... per il bambino è magia pura. Incanto.

La forma, il colore, la luce e la superficie materica iniziano ad annidarsi nella sua mente. Entra a contatto con un mondo nuovo.

Ma l'eco della Marsigliese finisce verso la metà di marzo del 1956, anno in cui la Tunisia proclama l'indipendenza. L'azienda, la casa di famiglia e tutti gli averi degli stranieri e delle compagnie petrolifere, in un'ottica di nazionalizzazione, vengono sequestrati. Inizia l'esodo per Francesco e la sua famiglia.

       L'Italia è il continente a cui approdano. Sbarcano a Napoli, in un campo profughi. Il nonno è già gravemente ammalato di cancro e il padre, a quarant'anni, deve ricominciare da capo una vita. Di colpo, indigenza, precarietà e povertà sono il motivo costante che scandiscono le giornate di quegli anni.

        Si spostano in Abruzzo, dove vi risiedono per un certo periodo, di lì a Genova, per tre, quattro anni, il padre trova lavoro come facchino al porto.

« A Genova ho trovato un gruppo di ragazzi appassionati all'arte che mi hanno introdotto alla letteratura e alla storia dell'arte. »

Poi giungono a Torino, dove uno zio li ha preceduti, e prendono in gestione un'edicola vicino alla fabbrica di carrozzeria Pininfarina.

« Ho fatto un sacco di lavori. Venditore di libri, elettricista e poi operaio in catena di montaggio alla Pininfarina. »

       Ma la pittura esplodeva forte nei momenti di pausa, di libertà dalle incombenze quotidiane.

E il ricordo prendeva forza.

E allora il colore trasformava la materia e le notti si facevano insonni in quella soffitta che si affaccia su piazza Carlo Alberto e che Francesco trasforma in studio. La nebbia delle stagioni invernali avvolge la piazza che di notte si trasforma in un dipinto di Luigi Spazzapan e ricopre la lapide dedicata a Nietzsche della casa di fronte, dove il filosofo ha abitato, prima che la pazzia si insinuasse in lui sconvolgendolo. E in quel buio lattiginoso, armato di tele e colori, nascono nuove impressioni.

         Alla galleria d'arte Doria espone i suoi lavori nella sua prima mostra personale.

Paolo Levi, il critico d'arte e giornalista, cura la presentazione della mostra. Qui, alle pareti, i dipinti e le parole si incrociano e attorno a loro ruota materia e colore che danno vita a una sequenza di immagini, di nuove realtà.  

       E le emozioni iniziano a scorrere in quello spazio espositivo, rincorrendosi nel tempo in innumerevoli altre mostre collettive e personali dell'autore.

A Torino il mare gli manca. Gli manca quello spazio che riflette il cielo tra le onde e crea una tavolozza di colori che si stempera schiumando verso il bianco.

Ma al mare ci torna.

       La Liguria è lì, pronta ad assorbirlo con le sue assolati estati, tra le sue barche ormeggiate, prodiga nel restituirgli una tavolozza di colori.

Passano gli anni e conosce Guido Seborga (Guido Hess) grande intellettuale, redattore e scrittore di musica, cinema, teatro, letteratura e pittura. Un uomo che fu allievo di Augusto Monti, partecipò con Ada Gobetti, Franco Antonicelli, Felice Casorati, Massimo Mila ed un gruppo di altre persone alla fondazione dell'Unione Culturale di Torino.

« Aveva ripreso a dipingere alla fine degli anni sessanta e io l'avevo frequentato molto. Adorava l'Africa ed era un uomo di grande cultura. Viveva a Bordighera che amava moltissimo. E' stato un grande incontro...»

 

 

       Ed è in una libreria che incontro Francesco. Non quella di “Il deserto dei Tartari” che nel frattempo, purtroppo, ha chiuso ma in un'altra, dove le vetrine hanno ospitato, per un certo periodo, i suoi quadri. Libri e dipinti, un connubio stretto, colori e parole in libertà.

      Nel centro storico di Rivoli passeggiamo verso il suo studio. Due rampe di scale in una dimora dei primi del Novecento, dove un fazzoletto di verde, una striscia di prato con qualche albero, stempera il mattone e il cemento urbano.

       Lo studio di un artista, simile alla cella di un monaco, è un luogo di raccoglimento e di riflessione. In un ordine estremo o in un caos anarchico, al termine di sotterranei percorsi, arrampicando lungo un sentiero di ricerca interiore, vengono alla luce nuove opere.

       Ed è qui dove Francesco incontra, depositandolo in spazi costruiti, tele cucite su aste di legno, dischi di carta abrasiva che ricordano bersagli o selvaggi scudi di pellirossa, la colorata epifania del ricordo.

       Segni e colore, carte incollate su terre e poi oggetti casuali, d'uso comune, riportati a nuova vita, coinquilini di pennellate che ricordano le pitture native dell'Africa e, in parte, per alcuni frammenti, quelle degli aborigeni australiani. E forse, è proprio il deserto la madre di questi tratti.

       Seduti in uno studio ordinatissimo (dove anche i mozziconi di sigaretta sembrano allineati), tra libri e colori, Francesco mi parla dei suoi lavori ma in realtà parla di pittori e pittura.

«Mi ha molto influenzato l'incontro e la frequentazione con Sandro Cherchi, il fondatore del gruppo “Corrente” negli anni Trenta. Era molto amico di Lucio Fontana e di Agenore Fabbri che lavorò ad Albisola.»

Ed è ancora il mare e la terra, con i sui colori e la sua essenza, a fare da leitmotiv all'espressione artistica. Ad Albisola, nella manifattura G. Mazzotti si sono verificati importanti incontri d'autore.

         Si modellava e si cuoceva le terre, all'inizio, dai comignoli per i camini, destinati alle case di Genova, ad un crogiolo d'opere d'arte. Molti artisti famosi, italiani e stranieri, transitarono a cavallo degli anni Settanta in quella manifattura.

«Con un gruppo di amici abbiamo fondato l'"Archivio Storico Sandro Cherchi", un artista che lavorava molto sul rapporto uomo-paesaggio. Nel dopoguerra aveva la cattedra di scultura all'Accademia Albertina... nel parco della Pellerina, nel 1989, hanno posato una sua opera “Figura nel paesaggio”»

        L'incontro con Cherchi non si era però fermato sulla soglia della frequentazione, aveva generato futuri sviluppi. Nell'ambito dell'"Archivio Storico S.C.", laboratorio di idee, di scambi, Francesco e i suoi amici creano una piccola casa editrice: "La pazza edizione". Il nome viene dato dall'omonima e più conosciuta scultura di Cherchi, "La pazza", degli anni '30, esposta in permanenza nella collezione della GAM di Torino. La casa editrice pubblicava in un periodico che si chiamava "Postilla", documenti storici, corrispondenze autografe, fotografie inerenti all'attività storica del maestro. Inoltre, dalla stessa editrice erano stati pubblicati anche tutta una serie di libretti dedicati all'opera di Cherchi: soprattutto disegni. A questo lavoro di editoria avevano collaborato numerosi storici e critici: Angelo Dragone, Marco Rosci, Angelo Mistrangelo, e molti altri...

         Francesco prende una sigaretta, la tiene tra le mani, rigirandola, poi continua il suo dialogo, un vago accenno ai suoi lavori, subito “driblato” su autori che hanno segnato il dopoguerra con le loro opere.

«Ho fatto una mostra intitolata ”Panicum” il nome l'ho preso da quelle sementi contenute nei sacchi. Sacchi che ho tagliato, cucito, bruciato e ho intelaiato su un supporto ligneo, poi sono intervenuto, ho inserito terre e colore...»

       Guardo Francesco che alle parole fa seguire una gestualità espressiva. Sembra che dipinga già nel gesto, con una pacatezza che sembra un sottrarsi. É un sorriso partecipe quello che si accende sul suo volto. Alto di statura, magro, ricorda vagamente Erri De Luca, parole l'uno (e che parole!), forma, materia e colore l'altro.

«Mi piace fare strati di colore, per poi scoprirne delle parti. Non so che cosa ci trovo sotto. Scrosto, ed è una sorpresa ciò che si rivela. Come un archeologo scavo. É un po' come ricreare meraviglia. La pittura è emozione. E' la mia “etnologia mediterranea”»

        L'accumulare strati di materiale su cui inserire frammenti o oggetti legati all'uomo, riportandoli fuori dall'oblio della dimenticanza, e poi intervenire con il colore, aggredire con la fiamma e scavare, per riportare alla luce è un percorso calato nella memoria delle emozioni, è un'archeologia del ricordo.

«Ho sempre lavorato con colori materici. A 18 anni, quando lavoravo in Pininfarina e dipingevo la notte, per tirare su un po' di soldi, lavoravo su commissione, i colleghi mi chiedevano del figurativo. Vasi, cavalli, paesaggi, olii materici, plasmati ad ampie campigliature, distesi a colpi di spatola.»

 

        Dopo qualche istante di sospensione, dove il ricordo affiora, continuando a rigirare tra le mani la sigaretta spenta, la sua voce riprende spazio nello studio.

«Dalla catena di montaggio, quando hanno saputo che conoscevo bene la lingua francese, mi hanno spostato in ufficio. Inizialmente facevo il fattorino e svariati altri lavori, poi sono passato in ufficio stampa e pubbliche relazioni, nello staff di Sergio Pininfarina e della figlia Lorenza, occupandomi di servizi fotografici, filmografia, editoria, avvenimenti e manifestazioni, tutto questo continuando a dipingere di notte e alla domenica.»

          Si alza, sposta un grande dipinto, lo osserva, mi indica i bordi nerastri.

«Qui sono entrato con la fiamma. Tàpies, Burri, questi magnifici artisti mi sono stati di grande stimolo, uso la fiamma nei miei lavori perché il fuoco è forza viva che plasma la materia. La luce, la sabbia e il fuoco sono elementi della terra, per questo quando posso mi chiudo in studio e continuo ad alimentare la pittura: “la mia splendida malattia”»

 

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