Scritto da © alvanicchio_Gir... - Mar, 18/09/2012 - 11:57
Seduto in un ameno ristorante, mangiai pochissimo, quasi niente. Qualcosa turbava il mio animo; eppure le portate erano ricche e servite con altrettanto garbo; ma avevano un sapore quasi ostile, non v’era un solo boccone che defluisse nel mio esofago, senza fatica.
Evanescenti ombre su un cielo cupo, creavano un’ atmosfera tetra quasi surreale. Volsi lo sguardo, mi ricordai di essere un soldato e per un attimo guardai le scarpe: erano sporche, quelle righe di fango rappreso stavano li a dimostrare che avevo passeggiato su sentieri impervi.
Non dissi nulla, mi risollevai sulla sedia e aggiustai il bavero del mio maglioncino: è un gesto narcisistico, pensai. Ma il tempo, come se si fosse fermato a rendere omaggio alle mie riflessioni, corse rapidamente sul balbettio delle flebili labbra della cameriera: signore, prende il caffè? No! Grazie! Risposi! e volsi di nuovo lo sguardo verso la finestra.
Il Ristorante dominava una valle immensa; un connubio di alberi e rocce che stavano a dimostrare la simbiosi che si genera attorno alla vita: un minimo spiraglio e scocca la scintilla divina. La roccia cerca di non farsi sgretolare dalla forza delle intemperie e gli alberi stanno lì, muti a trattenere quel poco di nutrimento che serve a loro stessi per vivere.
Così, quel nudo sperone di roccia, che precipita in aspri dirupi, accoglieva alberi, piante di lavanda selvatica e fili d’erba rinseccoliti negli interstizi delle stesse rocce. Forse per la carica elettrostatica, forse per quella strana ed insolita luce, tutto sembrava vivo; ed io, vi avevo camminato sopra come un acaro che cammina sulla testa di un individuo.
La mattinata era passata in fretta , salivo su un impervio sentiero, avvolto dai rami coperti di lussureggiante fogliame. Camminando, rimiravo gli spazi immensi, liberi e aperti verso un meraviglioso paesaggio. Durante la passeggiata raccoglievo i dolci frutti del lampone selvatico, là dove il terreno riesce a dare ospitalità a qualche rigogliosa pianta. Sembra strano, ma i frutti di bosco hanno un sapore intenso che inebria dapprima l’olfatto per deliziare, poi, il palato; senza timore di rivaleggiare con qualsiasi altro sapore.
Fu qui, salendo in questo impervio sentiero, tra questi profumi, tra questa costruzione scenografica della natura, che incontrai, in una radura dove l’orizzonte occidentale mostra, in tutta la sua grandezza, il Gran Sasso d’Italia, la mia amica Gaia.
Sogni passati in un turbinio di acqua che scorre veloce sulle pendici di un monte. Tutti gli angoli della radura erano deserti, non v’era nessuno ed io, in tono ossequioso, quasi sommesso dal timore reverenziale che solo una pagina di storia sa creare, pronunciai un flebile “Ciao,… come stai?” Porsi la mia mano con l’indice ed il pollice dilatato , pronta ad accogliere la sua mano. Gaia balzò in avanti e rispose: bene, grazie! .... Non aggiunse altro, tese la sua mano verso la a mia e con l’altro braccio mi cinse il collo, ponendo con insolita naturalezza , il suo viso su un lato della mia guancia, …… tacque, e furono momento di intensa nemesi storica: “giustizia riparatrice di molte e troppo variegate vicissitudini”.
Nel cielo deserto, le gazzarre degli uccelli scomparivano e ricomparivano subito dopo, emettendo chiassose melodie. Rimuginai,su quel fortuito incontro: ma vuoi le gazzarre, vuoi lo stridio dei melodici canti ornitologici, vuoi per il tepore del sole, desistetti!!! e mi lasciai andare in quell’afflato emotivo.
Si può scrivere di tutto sull’amicizia, sull’amore che lega due persone; tutti ne possono parlare ma il sentimento che unisce rimane un fenomeno che non può essere trasmesso: lo vedi e lo senti solo nei tuoi occhi e nel tuo cuore.
Fu come ritrovarsi per un attimo sospesi sopra una residenza pompeiana: spalle al mondo, con lo sguardo proiettato sul passato: “ un belvedere di cose lontane, senza tempo, che solo gli artefici diretti possono rimirare per la vita.
Passarono dieci forse venti minuti di profondo silenzio, in cui, su un aspro tetto di roccia, riassaporai il calore umano, nella sua interezza.
In quell’attimo ci trovammo, bolgia più- bolgia meno, in un angolo di paradiso. Epici ricordi transitavano per le nostre menti. Umidi erano stati i nascondigli dove giocavamo a guardie e ladri, umide erano state le stanze delle case diroccate dove ci rifugiavamo in giornate di pioggia; per fuggire, clandestini agli attenti richiami dei genitori, dagli occhi indiscreti degli adulti tesi a reprimere quegli imperdonabili crimini che solo l’innocenza giovanile sa creare.
Lo ricordo benissimo, sognavamo lì, in quel regno di favola, tra le amene viuzze che riescono dai torrentelli montani gonfiati a dismisura da copiose precipitazioni, grasse città da percorrere a bordo di lussuose macchine. Baciarsi sotto mille luci profuse dai sfavillanti marciapiedi. Bagnarsi nei vizi che la televisione trasmetteva in ogni remoto angolo del nostro cielo stellato, a cui rivolgevamo il nostro innocente sguardo nelle notti di San Lorenzo, in agosto.
Sogni di bambini lucidi di vigore e di salute.
Sotto quelle stelle, il sogno era quello di un auspicato arrivederci teso verso un domani glorioso; e per troppo tempo quel sogno, con gli occhi smarriti, si era spinto a ricercarci tra la folla, senza ritrovarsi.
Lo schiocco di una frusta spartì i nostri destini e quella giovanile e rabbiosa felicità, di cui ci sentivamo tronfi; spartì quella compagine fluida che scorreva nel nostro sangue; spartì quel nostro calore gonfio di speranze e di parole fuse con armoniosa esistenza.
Ora, ci ritroviamo qui, dopo molti anni; ingannati dalle false apparenze, ingannati dal rigore ritmico di un pendolo che non perdona e ci ricorda ritmicamente i giorni che ci rimangono da vivere: quanto tempo è passato!!! Quante stelle sono cadute: tante, forse troppe! ci ritroviamo nel silenzio di questo sentimento ci accomuna.
Avvinghiati al collo, presi dai ricordi, con gli occhi socchiusi, ci svegliamo solo al primo riverbero d’umido che torniamo a sentire: l’abbraccio sotto il sole produce sudore. La sveglia ci sorprende con gli occhi lucidi imbrattati dai ricordi, dalle speranze, dalle paure, dall’ansia; ci svegliamo in un intreccio di luci ed ombre che solo il bosco sa realizzare.
La sveglia ci sorprende in un intreccio di linee di forza, di vie di fuga, di crepe, di dirupi,di assenze di peso, di dissennatezza irrefrenabile, di prosa mentale portata avanti con idiomi pronunciati senza Profferire parola: sentimenti strani sorgivi di sensazioni mai provate.
Per un attimo ci chiediamo: chi siamo? Siamo noi? come siamo giunti su questa rocciosa sporgenza?
Così,ora, veniamo messi al repentaglio di un amaro destino, dove presente e passato si fondono in una convulsa melodia di ricordi.
“Catturato!!” Questa fu la frase che Gaia pronunciò quel giorno, quando ancor bambina, cinse, la prima volta, le sue braccia attorno al mio collo.
Mi fece cadere, ,… lo ricordo benissimo. E benissimo ricordo quel timido bacio che le diedi sul collo. Lei non disse nulla ma accostò leggermente il suo volto alla mia guancia e.. catturati di nuovo dalla folla degli amici, con le vesti sapide di polvere, ci rimettemmo a giocare.
Solo Ora, reo confesso di quella Lesa Maestà principesca, condannato dallo sguardo umido della mia amica, faccio ammenda in silenzio. Solo ora pago lo scotto di un antico peccato. Guardo i suoi occhi e mi sento perdonato sul volo empirico di un afflato emotivo. Un perdono sedizioso posto sulla realtà di un destino che ha separato per tanto tempo le nostre vite.
Oggi, con il corpo pingue e meno prestante di un tempo,oggi, con il piglio benevolo ed un’aria piena e colorita, oggi, con la rotondeggiante espressione ilare del mio viso, oggi, a distanza di anni, torno a sentirmi un maestoso avventuriero, riscattato dallo scherno della milizia umana.
Un avventuriero che senza saperlo, sta per avventurarsi sullo scranno del suo destino.
Volgo per un attimo lo sguardo sul mio passato, e mi ritrovo originato da “Poveri Natali”, costretto ad intraprendere la carriera militare ed esposto sulla ruota del pubblico ludibrio in terre lontane, a me sconosciute. In quelle lontane terre dove le varie vicissitudini hanno generato nella mia persona rabbia con me stesso: spegnendo l’ardore giovanile che avevo nel cuore, per lasciarmi in regalo una tendenziale misantropia di fondo.
Con il passare degli anni, in poche parole, ero diventato un “Orso”, chiuso ed enigmatico.
Quella immaginazione che un tempo scorreva sulle ali della mia fanciullesca speranza, aveva lasciato spazio ha lasciato spazio ad un incipiente sconforto che si inviluppava in una mente obliqua, aperta solo alle dotte dissequazioni.
Dove vai? ..chiedo a Giada. Voglio raggiungere “Fonte Gelata”,mi rispose! .. e tu? chiese con l'armonioso tono della sua voce. Il dialogo sordo di una costruzione mentale mi costringe a rispondere: si!! anch’io! Facciamo la strada insieme? disse Gaia. Volentieri! risposi, è un piacere ... e mi mancarono le parole.
Così, d’età indecisa e non più giovinetto nelle apparenze, lontano dai caldi giorni dei sensi ribelli, contro un indomito timore di dare pubblico scandalo nei caffè e nei chioschi del vecchio paese natio, cominciai a muovermi al fianco della Venere Adolescenziale.
Non so come, ma non lo avevo fatto, alzai lo sguardo e vidi capelli biondi, ricci, con riflessi perlati, posti su delle spalle ben proporzionate, gambe snelle, solidi glutei: Gaia non era cambiata, era sempre la stessa, come se il tempo si fosse fermato sulle sue apparenze; facendo, di contro, fiero oltraggio alla mia persona.
Non era cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista, quando ancora giovani, prima di entrare nella sua camera emisi un flebile suono e lei, invitandomi ad entrare, sorrise. Era distesa di traverso, sul suo piumino rosa, ancora vestita, con le scarpe ai piedi. Alzò la mano per invitarmi al suo fianco e furono giorni di intenso amore: talmente intensi che l’estate finì in fretta.
Quando i ricordi sono così intensi, si può vivere anche solo di quei ricordi! pensai per un attimo, mentre salivo per quella impervia mulattiera.
Riflettendo,.. fu da quella estate che percepii l’inesorabile zelo del pendolo, chiamato a lavorare senza umana pietà in terre lontane con gente diversa ...il pendolo! quel maledetto pendolo! Questa è la sorte!!! E meditavo, perchè eravamo stati separati separati da una oscura forza economica. Distante e distinti i nostri destini, lontani dalle nostre comuni residenze. E rifletto! è vero i mezzi di comunicazione che ci sono oggi in quel tempo non c’erano e la lontananza per noi è stata oblio. Giovani di belle speranze, poco avvezzi alla scrittura, ci ritrovanno ben presto sempre più lontani.
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