La porta dietro l'armadio (parte seconda) | Prosa e racconti | Rinaldo Ambrosia | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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La porta dietro l'armadio (parte seconda)

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                                                                                               ***

- Strano davvero questo scritto. Dov’è che l’hai trovato, Anna?

- In quel mobile che sto restaurando, pizzicato all’interno del vano di un cassetto. Probabilmente è scivolato lì. Ma che cosa vorrà dire?

- Sembra l’indicazione di un luogo, di un passaggio: “La grande porta”. Davvero singolare Anna. Qui ci vorrebbe la signorina Servetti, grande esperta di esoterismo!

- Zietta, il triangolo magico: Torino, Praga e Lione!

- Sì, biglietto di andata e ritorno! Anna, fammi il favore; i triangoli lasciali ai geometri! Ora sentiamo cosa ne pensa tota Servetti.

Anna si piazza alle spalle della zia, incolla l’orecchio alla cornetta del telefono, e ascolta la conversazione.

 

- Cara la mia Frisa! Che piacere sentirla!

- Oh, tota Servetti; immagino che sia sempre occupata dai suoi pianeti, i tarocchi, diavoli e fantesche.

- Insomma… D'altronde il personale è quello che è… e io, coccolata dai miei acciacchi, mi difendo come una vecchia strega!

Entrambe scoppiano a ridere, poi Frisa le legge il biglietto.

Fuori i compagni dalle compagne”.

- Ma no zietta. Quello è il biglietto da visita di Mara, sai la mia amica del circolo femminista! Ecco, tieni l’altro foglietto.

Tota Servetti, dopo l’ascolto, esordisce dicendo:

- Ah, cara Frisa, certo che sibillino è sibillino questo messaggio. Si sposa benissimo con il 45° parallelo, quello del Bene e del Male, e la nostra città vi è adagiata sopra. Una porta, “La grande porta”; tutto lascia supporre ad un luogo dove avviene un passaggio… Bè, la notte più lunga dell’inverno è quella del solstizio! Ma quella strana faccenda dei mestieri nell’isola di Liborio, non mi dice proprio nulla. Se mi viene in mente altro le farò sapere, intanto si riguardi, e ora che ha finalmente del tempo libero, spero vorrà farmi visita più spesso.

Anna nel frattempo ha sfilato dagli scaffali della libreria il grosso volume del dizionario, lo consulta freneticamente, poi esultante, lo porge alla zia.

- Ecco, zietta, guarda un po’ qui!

 

Solstizio

[sol-stì-zio]

 

Definizione:

s. m. (astr.) ciascuna delle due date dell’anno, il 22 dicembre e il 21 giugno, in cui si ha in ognuno dei due emisferi alternatamente la notte più lunga e il giorno più lungo | punto solstiziale.

 

Dunque, cara Anna, si tratta di domani sera, il 22. L’isola di San Liborio la conosco bene; è in pieno centro, dove c’era la vecchia sede dell’anagrafe. Mancano ancora due elementi del nostro rebus: la faccenda degli antichi mestieri, e la grande porta. Ma, porte e portoni, in quella zona, di certo, non ne mancano.

- Zietta, abbiamo tutto il pomeriggio a disposizione per cercarlo. Domani sera, a mezzanotte in punto saremo là.

- Ma tu sei tutta matta! Io, domani sera, la passerò davanti al televisore, godendomi l’Aida diretta dal mio caro Muti!

- Ma come? zietta!

 

 

                                                                                               ***

 

Baretti ti ha accompagnato all’aperto. Barcolli leggermente, caro Kiel. Inspiri profonde boccate d’aria, osservi il corso che è diventato un parcheggio, guardi le poche foglie rinsecchite dei platani, e pensi a lei; questa donna è la tua droga!

 

Era sera, ricordi? Luisa ti aveva detto di non voler uscire, non quella sera. Un po’ di raffreddore, capita. Camminavi, e i tuoi percorsi si richiudevano automaticamente sotto casa sua. Avevi sollevato lo sguardo verso la sua finestra (quante volte avevi ripetuto quel gesto?), la luce era spenta. Ecco, ora è a letto, avevi pensato attraversando la strada. All’ombra dell’androne del palazzo di fronte avevi acceso una sigaretta. Poi, un’auto aveva accostato a fianco del marciapiede di fronte, e Luisa era salita a bordo. Avevi visto bene, era proprio lei. Istintivamente, avevi annotato mentalmente il numero di targa (alla propria professione, come al destino, non si sfugge, caro ispettore) e telefonato in ufficio, facendoti passare l’archivio automezzi, mentre, affannoso, cercavi attorno a te un taxi.

Eri riuscito a fermarne uno e salirci sopra al volo, mentre le tue parole scandivano il logoro copione da film.

Segua quell’auto!”.

E mentre la città ti ruotava attorno e le gomme della macchina mordevano l’asfalto, tu lucido, pensavi che il collega dell’archivio si era dato proprio da fare; la vettura apparteneva a un certo Fabio Russo, residente in via Segurana 36. Due passi dalla caserma di via Asti. Allora, tagliando per le vie di questo enorme foglio a quadretti che è Torino, avevi anticipato il loro percorso. Ti eri fatto lasciare su corso Casale, e dopo pochi passi, eri giunto nei pressi della via. E, come un ragno in un buco, avevi atteso nell’ombra le tue prede.

Qualche istante dopo era giunta la loro macchina. Luisa era scesa ridendo, aveva preso sottobraccio l’uomo ed entrambi erano entrati nel portone. Avevi visto accendersi le luci al terzo piano. E dietro loro, eri salito anche tu, silenzioso come un felino e determinato come una lama. Le scale sapevano di cavoli e pipì di gatto.

Al terzo piano, la lucida targhetta in ottone riportava il cognome di Russo; dall’appartamento proveniva una musica soffusa. Ti eri seduto sull’ultimo scalino che portava alle soffitte, e lì, nell’ombra, avevi iniziato l’attesa.

                                                                                                       ***

Frisa esce di casa. Si guarda intorno. La notte è già iniziata, un quarto di luna illumina il cielo. È la notte più lunga dell’inverno. Ora ci siamo, pensa Frisa, allontanandosi verso via Po. Alcuni passanti corrono via frettolosi. La rassicurante geometria dei portici, con le sue luci gialle, accompagna i suoi pensieri.

 

Altro Che Aida e Muti, fa un freddo cane, stasera. Povera Anna, moriva dalla curiosità; certo non immaginava che quel luogo riferito a ”antichi mestieri” non può che essere la “piazzetta dei Maestri Menusieri”.

 

Le luci di piazza Castello si riflettono sulle lastre di pietra umide. Frisa raggiunge via Barbaroux, e l’ampia bolla di luce della piazza, cede ad un budello d’oscurità. I rumori della piazza giungono attenuati, solo l’eco dei suoi passi rimbomba e si infrange tra le maglie delle serrande chiuse delle botteghe, e i portoni che si aprono bui e improvvisi. Androni male illuminati assorbono, come spugne, le rare presenze di vita. Ora un lieve eco di passi si sovrappone a quelli di Frisa. Lei si volta, ma la strada è vuota. Un gatto, disturbato, scivola via veloce da un cassonetto della spazzatura.

Forse era davvero meglio Muti, stasera. Pensa Frisa, attraversata da un brivido. Ancora l’eco di passi, che rimbalzano sui muri, che inseguono la sua ombra.

La piazzetta, minuscola e di forma triangolare, si apre improvvisa alla sua sinistra. Una piccola fontanella, un toretto, con il suo getto d’acqua rompe il silenzio della notte. Di fronte, un palazzo fatiscente, porge il timpano del suo androne (completamente murato) con un trompe d’oeil. Un loggiato seicentesco si apre con le sue volte a vela su un pavimento bianco e nero disegnato a scacchi. In profondità, verso sinistra, ancora una fuga di pilastri e volte a crociera. Sul lato destro della pittura, in cima a quattro scalini, un armadio a due ante troneggia mascherando una porta, anch’essa dipinta con buona tecnica.

Frisa osserva meglio il dipinto. L’armadio non lo aveva mai notato. Strano.

Ancora l’eco di passi sul selciato.

Dal vicolo laterale, avvolta nell’ombra, è sbucata una persona che ora avanza verso lei.

Frisa sistema meglio gli occhiali sul naso, strabuzza gli occhi, cerca di dar forma a quei contorni, mentre tutti i suoi muscoli sono immobili, pietrificati. Ancora pochi passi e si fronteggiano.

 

- Zietta?!

- Anna?!

 

- Che spavento che mi hai fatto prendere, Anna!

- Perché tu no? Ma non dovevi guardare Muti, stasera, zietta?

- Ho cambiato idea e …

- Guarda zietta…!!!

 

Una luce improvvisa e intensa, investe le due donne. Proviene dal disegno sul muro, dove la porta nascosta dall’armadio, come una conchiglia, ha dischiuso la sua valva. Un luminoso corridoio si apre verso l’interno dell’edificio. Nell’aria, i rintocchi di un campanile. Mezzanotte in punto. Le due donne, dopo un dubbioso sguardo d’intesa, attraversano la porta, prontamente fagocitate dal muro.

 

 

                                                                                           ***

 

Il tempo è passato con il ritmo della notte. E tu, caro ispettore, attendi immobile nell’ombra. La porta dell’appartamento è là, delineata dal tenue riflesso di un lampione. Dietro a quella porta c’è Luisa. Ti alzi, e come un guerriero ninja, scendi le scale. Appoggi l’orecchio sulla porta. Nessun rumore. Nessuna luce. Una sottile lama nella serratura, un lieve scatto, e sei dentro all’appartamento. Ti sfili le scarpe mentre ascolti il silenzio di questa casa. Chiudi per un istante gli occhi, per immergerti nei buio, poi felpato ti muovi.

La sala è immersa nella penombra, su un tavolo bottiglie di liquore, bicchieri e un posacenere pieno di cadaveri di sigarette. Da un acquario, una luce bluastra si diffonde nell’ambiente. Un pesce nuota pigro muovendo lentamente le pinne. Osservi, incantato, i suoi movimenti ipnotici, poi scivoli tra due piante e guardi nel corridoio. Senti da una delle porte aperte provenire il rumore dei loro respiri, poi un lieve russare. Sei appoggiato allo stipite della porta. Il viso dell’uomo è rivolto verso la parete; il lenzuolo, stropicciato, copre malamente una porzione del corpo.

Balzi leggero al suo fianco. I tuoi guanti si chiudono sulla sua faccia, ruoti di scatto la sua testa, mentre gli appoggi sopra il tuo ginocchio sinistro, caricandolo con il peso del tuo corpo. La notte è interrotta dal rumore di una vertebra che si spezza. Poi ancora silenzio. Lei, disturbata nel sonno, si è rigirata nel letto, e continua a dormire. Il suo viso, ora, è rivolto in alto, affossato nel cuscino.

Appoggi il tuo orecchio sul torace dell’uomo (deformazione professionale), il cuore è assente. Sfili il cuscino da sotto a quella testa che ora si piega in tutte le direzioni. Ti avvicini a lei, osservi le sue palpebre chiuse, il taglio delle sue labbra (quel lieve rossore sul collo) e appoggi il cuscino, leggero come l’ala di una farfalla, sul suo viso. Poi premi, sempre più forte. Costante e forte, come in una prestazione agonistica, mentre il suo corpo si inarca, e le sua braccia artigliano il vuoto, in cerca d’aria, e ancora aria. Molecole che non ci sono più, che non riescono a attraversare lo strato di gommapiuma e cotone. Ancora un lieve tremolio poi il corpo, eliso, si arrende alla vita.

E, per un istante, il tuo orecchio è nuovamente appoggiato sul suo seno sinistro, attento a percepire il minimo suono proveniente da quella gabbia toracica. Ancora nulla.

Ti alzi, e cammini nella camera, scavalchi, attento a non calpestarle, le calze di Luisa, poi attraversi la sala. Il pesce è lì che si muove con lenti movimenti, ti avvicini, guardi quell’occhio inespressivo, la sua bocca che ingerisce acqua, le striature colorate del corpo, la leggera velatura delle sue pinne. Poi ti allacci le scarpe e esci da quella casa. Sei stato fortunato caro ispettore! Non hai trovato il solito nottambulo sulle scale, o la vecchietta insonne. L’intera casa sembrava immersa nel torpore della notte. E anche la strada era deserta.

Hai camminato, dove non lo sai neanche tu. Ma hai camminato tutta la notte, solo, tra i quartieri e le piazze di questa città.

 

                                                                          ***

 

                                                 FINE PARTE SECONDA

 

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