Festa a palazzo | Prosa e racconti | Rinaldo Ambrosia | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Festa a palazzo

fotografia, proprietà dell'autore
 

 

Il sole è allo zenit. Ci saranno quarantacinque gradi centigradi. Scavare sotto il sole non è una attività molto consigliata, eppure questo è il mio mondo, la mia vita.

La collega archeologa inglese è da due ore china su un fazzoletto di terra. Delicatamente, con spatola e pennello libera secoli di sedimenti, riportando alla luce un frammento del passato. China sembra uno scriba, e qui, in questo deserto egiziano assolato, il termine di paragone è calzante.

Ma tutto è iniziato molto tempo fa...

 

 

Venezia in questa giornata d'ottobre è splendida. C'è una luce nell'aria che è la stessa dei dipinti del Canaletto. Che buffo, è proprio per via di un dipinto che io e Francesca siamo qui. Lei gestisce una piccola agenzia di viaggi a Roma e ha ricevuto un invito da una sala d'aste. Suo padre continua ad acquistare dipinti antichi, ma l'età inizia a farsi sentire e delega sempre più Francesca, evitando viaggi per lui ormai faticosi.

Venezia, già il suono di questa parola trasuda di secoli, di popoli e di Storia.

- Vedrai Clara, ci divertiremo. - aveva detto Francesca e preparata una piccola sacca con un cambio di indumenti ci eravamo recate in stazione. Il viaggio si era consumato tra le nostre parole e le risate, sembravamo due collegiali in libera uscita.

La casa d'aste era gremita di persone. Due giapponesi, seduti al nostro fianco erano intenti a consultare il catalogo. Stavo conversando con Francesca in attesa che il banditore iniziasse l'asta, quando un singolare signore aveva occupato il posto alla mia destra. Se non fosse che eravamo negli anni ottanta sembrava un personaggio tratto da un dipinto del Guardi. Un lungo tabarro scuro lo avvolgeva completamente. Il viso dalla forma armoniosa, pallido, dava maggior risalto al candore dei suoi capelli che spiccavano dal mantello, come un particolare di un personaggio del Caravaggio. Osservavo le sue mani che, appoggiata una canna scura con l'impugnatura in avorio, patinata dal tempo, sfogliavano il catalogo d'asta. Mani, lunghe e curatissime, e sull'anulare destro spiccava un anello, antico, con incise le armi di un casato. Dal panciotto, in broccato, al posto dell'orologio da taschino era riposto un fazzoletto di un candore immacolato.

L'asta era iniziata. Il banditore stava mettendo all'incanto il primo lotto. Fioccavano le prime offerte, l'asta si stava lentamente riscaldando, come un felino che fiuta l'ambiente prima di muoversi. Una coppia di americani rilanciava come se giocassero al tavolo verde. C'era anche una coppia di russi, sfacciatamente ricchi, che rilanciavano offerte su delle tele (di attribuzione settecentesca) che onestamente non avrei acquistato nemmeno per la misera somma di diecimila lire. Il lotto successivo era quello del quadro che interessava al padre di Francesca o meglio, da come era apparentemente distaccata e algida (ma io sapevo che dentro era tutto un ribollire d'emozioni) sembrava che interessasse di più a lei. Quel paesaggio romano, una tavoletta di buona fattura, ottocento pieno e di piccole dimensioni se lo aggiudicò con una cifra al di sotto della quota preventivata.

Poi vennero introdotti altri lotti. Un antico canterano aveva sollevato l'imperturbabilità del mio intabarrato vicino di posto. Rilanciava l'offerta con impercettibili cenni del capo. Una coppia giapponese (non quella al nostro fianco) gareggiava per quel mobile. C'era anche un signore in terza fila, forse un belga, che si era inserito nella competizione. Avevo osservato meglio il mobile, di quel canterano mi colpiva il profilo decorato, mi ricordava qualcosa, ma cosa...

- Ma certo! - avevo esclamato ad alta voce facendo sussultare Francesca.

- Guarda, il decoro sbalzato richiama un disegno di Donatello. - Francesca mi aveva dato un'occhiata furiosa, fulminandomi. - Abbassa la voce, per favore... -

 

Il signore, quel singolare personaggio dall'aura settecentesca, dopo un'imperturbabile trattativa si era aggiudicato il mobile, la cui base d'asta era già analoga al prezzo di una automobile.

Sul suo viso, si era acceso un velato sorriso di soddisfazione, poi si era voltato verso di me e aveva detto:

- Complimenti signorina! in questa sala siamo gli unici a conoscere quel particolare – alzando un sopracciglio gli avevo rivolto uno sguardo interrogativo. - Ma, certo... colgo la sua perplessità. Mi riferivo al decoro del canterano. Al disegno di Donatello. Ma che sgarbato, permetta che mi presenti. - aveva estratto da una vetusta scatolina in argento con incisa una corona e delle iniziali, un cartoncino color panna, dove sotto la scritta Conte, – biffata da un tratto di penna – compariva, in bastoncino inglese, il suo nome e il cognome. Poi aveva aggiunto.

- Questa sera do una festa a palazzo, se vorreste favorirmi, lei e la sua amica, dell'onore della vostra presenza, mi fareste cosa gradita. Datemi l'indirizzo dove albergate e alle ventuno mando il motoscafo ad attendervi. - Poi l'uomo, salutando, si era avviato verso l'uscita. Due individui che attendevano al fondo della sala, ad un suo cenno, uno si era avviato a sbrigare le pratiche per l'acquisto del mobile, mentre l'altro aveva accompagnato il nobiluomo verso l'imbarcazione.

Francesca, guardandomi, sorrideva incredula.

  • Ma dai, una festa a palazzo... sembra di essere entrati in una fiaba! - poi tutta euforica.

- Dobbiamo assolutamente comperarci qualcosa di adatto!- E il pomeriggio, complice l'atmosfera che solo Venezia sa donare, ci aveva colto tra vari negozi alla ricerca di qualcosa di carino da indossare. La città era una conchiglia che mostrava tutto lo sfavillio della sua perla.

 

                                                                                       ***

Alle ventuno il motoscafo attendeva a pochi passi dall'hotel. Imbarazzata, sui miei tacchi alti mi appoggiai ai muscoli del marinaio che mi offriva il braccio. Ero stordita dal fascino della città, dalle sue luci riflesse sul Canal Grande mentre, dalla bandiera a poppa, il leone di San Marco ondeggiava al vento.

Alla porta d'acqua, ad attenderci –un vero tuffo nel passato- dei mori con turbante, dai colorati abiti, che reggevano delle fiaccole. Mi sembrava di essere entrata in punta di piedi nel dipinto di Paolo Veronese, "Convivio in casa Levi". Una scalinata punteggiata da vivaci fiaccole ci indicava il percorso. Dall'alto, tra un coro di risate e il brusio di voci, si sentiva il suono di una musica d'archi.  

La festa a palazzo si stava animando.

Il nostro anfitrione, quando ci scorse (era impegnato in una conversazione con un gruppo di persone), si staccò dal gruppo e con un sorriso ci invitò ad accomodarci.

Il salone era gremito di persone. Affreschi al soffitto limitavano piacevolmente il nostro sguardo. Un gruppo di musici, in costume settecentesco, al fondo della sala, tiravano di corda sui loro strumenti ad arco. L'atmosfera era piacevolmente rilassante. Francesca, da donna mondana, osservava i convitati, e ad un tratto aveva sussurrato:

- Ehi, guarda. Ma quello non è l'Avvoc...

- Sì, è lui. - avevo risposto, e il mio pensiero era andato a Palazzo Grassi, inaugurato di recente e al Gota delle famiglie torinesi.

Immersi in quella atmosfera la serata era scivolata via come d'incanto. Il tempo, in certe occasioni, alterando la percezione del nostro orologio interno, assume una accelerazione come una palla da biliardo colpita dalla stecca. Mi ero avvicinata ad una finestra che dava sul canale, vedevo scorrere la notte e un vaporetto di linea. Osservavo l'ondeggiare e il vibrare delle luci che oscillavano in sequenza come una melodia. Forse il respiro della Serenissima era proprio quello.

 

Tra due tendoni, su una parete che cedeva il suo spazio ad una balconata, un singolare dipinto, tra i molti che lo attorniavano, mi aveva incuriosito e aveva catturato la mia attenzione.

Raffigurava l'interno di una bottega dove si fabbricavano dei rosari. Alcuni lavoranti preparavano e lavoravano i singoli grani, ricavati perlopiù da conchiglie e da ossa, mentre al fondo del locale, dietro ad un bancone si vedeva, a fianco di un lavorante, due nobiluomini intenti in una trattativa di compravendita. In basso a destra, di quella pittura, compariva una scritta che recitava.

 

ARTE DEI CORONERI -

FU RISTAVRATO LANNO 1700

SOTTO LA GASTALDIA …

… SVOI COMPAGNI

 

- Finirà in un museo, come quasi tutta la quadreria. - la voce del mio anfitrione, giunto alle mie spalle, mi aveva colto di sorpresa.

- Ma venga, devo parlarle. -

Seguendolo, avevamo imboccato un corridoio e un'infilata di stanze, in un susseguirsi di mobili, arazzi e dipinti che coprivano per intero le pareti. Poi eravamo entrati in uno studio. Le pareti, da terra al soffitto, erano stipate di libri. Un mappamondo era a lato di un tavolo scrivania zeppo di carte. Sugli scaffali delle pesanti librerie vi si trovava un'infinità di oggetti. Dai vasi egizi a fotografie al collodio della Valle di Re e delle Piramidi del pianoro di Giza.

C'erano su dei tavoli, disposti per la consultazione, antichi atlanti, rilegati in pergamena, dalle cui pagine sbucavano delle cartine acquarellate a mano. Il Nilo scorreva tra quelle pagine. Mobili a vetrinetta contenevano monete, medaglioni, altre frammenti di papiro vergati da antiche iscrizioni. Due comode poltrone in cuoio, un po' consunte (a dir il vero), un canapé e una serie di tappeti completavano l'arredo. A terra, contro le librerie, erano appoggiati quadri e incisioni antiche dentro cornici che risentivano, anch'esse, il peso degli anni. La finestra dietro la scrivania, che doveva pur dare da qualche parte, era schermata da pesanti tendaggi. L'ambiente era rischiarato da alcune lampade schermate da paralumi che creavano, in quella penombra, gradevoli pozze di luce. Il silenzio regnava assoluto.

- Questo è il mio studio, la biblioteca è nel salone accanto.- aveva detto il conte e poi aveva aggiunto. - è il mio mondo, la mia scatola magica. Qui mi passo la maggior parte del tempo quando sono libero dai miei obblighi. Ma si avvicini, le voglio far vedere una cosa.

Il nobiluomo aveva sollevato da un secchiello una bottiglia di champagne e aveva riempito due bicchieri e nel porgermene uno aveva detto:

- Brindiamo, oggi è un giorno speciale.

Avevo sollevato quel bicchiere di vetro fino, dal colore ambrato, pensando.

“ Questo ci sta provando... potrebbe essere mio padre”. Ma il mio anfitrione dopo essersi bagnato appena le labbra, aveva posato il bicchiere e mi aveva fatta avvicinare ad una bacheca protetta da un vetro, sul fondo c'era un frammento di papiro.

- Le dicevo, oggi è un giorno speciale. Lei è l'unica che ha riconosciuto quel fregio, su quel canterano, attribuito al disegno di Donatello. Lei, Clara A. è nata nel mese di dicembre e... - Mi aveva detto con precisione anagrafica, il mese, il luogo, il giorno e l'ora della mia nascita. Nonché i mio nome e cognome e il segno astrologico. Più che incuriosita ero stupita da quella situazione che assomigliava sempre più a una pièce teatrale.

- Lo vede quel frammento di papiro? proviene da una antica necropoli. È una preghiera di uno scriba rivolta al dio Thot, divinità della scrittura e della saggezza, messaggero degli dei.- poi una vena di tristezza gli era comparsa sul viso. Si era lasciato cadere di peso sulla poltrona, invitandomi con un cenno ad occupare l'altra.

- Mia moglie era archeologa, aveva acquistato questo frammento al mercato nero, sicuramente trafugato da una sepoltura, perchè era sulle tracce di una necropoli che doveva essere ubicata nei pressi della Valle dei Re. Questo e altri reperti finiranno – per le sue ultime volontà- ad un museo.

Ma sento -aveva detto proprio così- che lei continuerà l'opera di mia moglie.

Ho percepito i segni... il messaggio mi è giunto chiaro.

Lei, per tutta la sua vita, si metterà sulle tracce di questa necropoli... mia moglie si è manifestata in una seduta spiritica, mi ha parlato di lei come l'incarnazione del suo spirito... lei scoprirà la necropoli e farà delle pubblicazioni coronate da onori e fama.

 

Lo avevo guardato come si guarda un folle, inorridendo. Avevo riso di una risata stentata e nervosa. Un senso di pesante oppressione era gravato su di me. L'atmosfera stessa era diventata di colpo opaca e putrescente. Mi ero alzata e, cercando di orientarmi in quel labirinto di stanze, ero riuscita a raggiungere Francesca e a uscire dal palazzo. A fuggire.

 

Sono trascorsi quasi trent'anni da quella sera e sono qui, con una laurea in egittologia conseguita anni fa all'Università del Cairo, a scavare strati di sabbia sotto il sole. Sabbia che è diventata la polvere dei miei giorni, il mio respiro.

Io, che nella vita volevo fare la fotografa.

Ma non è già tutto scritto nel grande libro della vita?

Si può forse fermare il proprio destino?

Si può fuggire dai propri giorni?

La collega archeologa inglese si è alzata. Si avvicina sorridendo. In mano regge il coperchio di un vaso canopo che ha riportato alla luce. La testa di Duamutef, il dio sciacallo, ha un orecchio spezzato. Ci siamo. La necropoli non dovrebbe essere lontana.

 

 

 

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