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Il medico condotto

 

La vuoi sentire davvero questa storia?

Proverò a narrarla ricostruendo quegli anni del primo dopoguerra, proiettati verso il boom economico, ormai lontani nel tempo e nel ricordo.

 

Lo avevano colto sul fatto, almeno così si raccontava al bar, in paese, del vecchio medico condotto che girava tra le varie borgate con la sua Fiat 600, ormai ridotta ad un catorcio su quattro ruote. Piero, il meccanico, quando sentiva tossicchiare quel motore si metteva le mani nei capelli.

“Dottore, è ora di cambiarla questa macchina...” diceva sconsolato. “Vedremo.” rispondeva lui secco.

Di stazza robusta, occhi scuri, capelli radi, le immancabile bretelle portate anche sulle magliette estive, era dai modi bruschi e di poche parole.

Eppure ne aveva guariti molti di pazienti. Aveva il dono, molto raro, di azzeccare in pieno la diagnosi della malattia. Gli bastava un colpo d'occhio, seguito da una breve visita, e al novanta per cento la diagnosi si rivelava esatta. Un vero segugio.

Il caso eclatante era stato quello di Luigi, montatore meccanico, che era tornato da una trasferta in Bulgaria debole e pallido come un cencio. Si era fatto vedere da un paio di medici (allora gli esami di laboratorio erano una prassi rara) con scarsi risultati. Non appena entrato in studio, l'aveva fatto sdraiare sul lettino, e dopo due minuti, seduto alla scrivania, sul ricettario aveva scritto la diagnosi di epatite.

Ed epatite era, confermata dagli esami ospedalieri successivi al suo ricovero.

Nel suo studio, sulla scrivania si trovavano sparpagliati un'infinità di timbri che affascinavano i bambini portati dalle madri per una visita, di solito per le tonsille o per le adenoidi infiammate. Scatole di medicine, campionari omaggio delle ditte farmaceutiche, erano appoggiate ai muri, assieme a pile di bollettini e riviste mediche.

Attraversava il paese con la sua auto strattonando il motore, non aveva tempo da perdere, per lui, il denaro e la professione erano la sua missione. Amava accumulare per poi acquistare alloggi. Circolavano molte voci sul suo carattere eccentrico, musone e avaro. E avaro lo era veramente, il denaro aveva la particolarità di metterlo il buonumore, soprattutto quando finiva nelle sue tasche.

Alla sera, al bar sul lungolago, gli abituali avventori lo vedevano rientrare dalle visite a domicilio. Parcheggiava dove capitava, lasciando l'auto aperta con le chiavi nel cruscotto, diceva, borbottando, “Tanto, se me la rubano mi fanno un piacere...”. Camminava ondeggiando, quasi fosse un po' claudicante. Rientrava a casa dove la moglie e i due figli lo attendevano per cena. Non si concedeva svaghi, qualche passeggiata domenicale con la famiglia e poi la lettura di un quotidiano, seduto alla scrivania del suo studio. D'estate si recava al mare con la famiglia e, nella vecchia casa degli suoceri, attorniata da un muro ricoperto di rampicanti, si abbandonava su una sdraio a leggere qualche libro giallo.

Amava la solitudine, il denaro, il suo lavoro e poi ancora il denaro. Aveva elevato la sua avarizia ad una forma d'arte.

All'epoca era consuetudine, in occasione delle visite a domicilio, dare al dottore un presente in moneta o di genere alimentare. E il nostro medico si tuffava a pieni mani in quella consuetudine, trasformata dal lui in sublime arte.

La moglie di Luigi, lo stagnino del paese, aveva dovuto andare reclamare dalla moglie del dottore un pollo, appoggiato sul tavolo della cucina, pronto per essere cucinato, perché il medico, al termine della visita, uscendo, se l'era portato via con sé.

La signora Pina, a letto da una settimana, lo aveva chiamato per una visita a domicilio. Suo figlio Giovanni, meccanico presso un'officina locale, aveva ritirato la paga settimanale e l'aveva appoggiata sul comò, a fianco della fotografia di matrimonio dei genitori, in camera da letto della madre. Proverbiali erano state le parole del medico che al termine della visita, prendendo il denaro aveva esclamato: “Questo è solo un acconto.”

Salami raccolti dal tavolo della cucina al termine di una visita e puntualmente reclamati alla moglie del dottore erano avvenimenti ricorrenti.

Se qualche operaio si presentava nello studio e distendeva sulla scrivania un biglietto di cartamoneta e tossicchiando mormorava “ Dottore, mi sento un po' stanco, privo di forze”, subito scattava una settimana di mutua, senza alcuna parola aggiuntiva, se non “Avanti un'altro” urlato ai pazienti in attesa nel corridoio.

Si raccontava in paese che (e qui il nostro personaggio aveva già passato abbondantemente la settantina) alla Beccaccia, il miglior ristorante dei dintorni, il cameriere Lorenzo era entrato in cucina dicendo alla padrona : “ Signora, io il dottore non lo servo!”.

La signora Maria, prendendo il blocchetto delle ordinazioni era entrata in sala, tra il silenzio glaciale dei commensali. Sul tavolo del medico, disposta sul tovagliolo, faceva bella mostra di sé la sua dentiera. Bizzarrie del genere avevano generato nel paese infinite chiacchiere. Era perfino spuntato un soprannome “asso piglia tutto”, sino al giorno in cui successe il fattaccio.

Che il dottore fosse un misurato lo sapevano anche gli alberi in paese, diciamo che la fama di tirchio era condita dalle altre bizzarrie e stranezze del suo carattere, e gli uomini, in piazza, non parlavano d'altro. Accadde, durante le vacanze estive, che l'anziana madre del medico, in soggiorno nella casa ligure, per un improvviso malore spirò.

Occorreva far trasportare la salma dalla Liguria sino al lago. Ovviamente i costi erano salati, per ogni città da attraversare occorreva pagare una tassa. Allora, in quei rari momenti in cui l'incoscienza si coniuga con il delirio, come un lampo la soluzione illumina, a ciel sereno, il nostro medico. L'auto (la nuova Fiat 124) è lì nel cortile della vecchia casa, al riparo da sguardi indiscreti. Il bagagliaio è una bocca aperta, un suadente richiamo, una tana discreta.

Alle ventidue, al volante della vettura, con il carico nel baule il nostro personaggio imbocca la statale alla volta della Lombardia, dove sul lago, a casa, attende ignara dell'evento la sua famiglia.

É la paletta dell'agente Musumeci, il poliziotto della stradale di pattuglia a fermare l'auto del dottore. L'ora, riportata sul verbale, non da adito a dubbi: le ventidue e trentacinque.

È verso il volto bianco del dottore, nonostante la notte scura (anche la luna, per pudore, si è ritirata) che viene intimato di aprire il bagagliaio per verificare se a bordo c'è il triangolo e la scatola delle lampadine di ricambio.

Dopo aver tergiversato, bofonchiando fantomatiche assurdità, il Nostro tenta di scantonare, ma è la mano dell'agente scelto Rossi che apre di scatto il portellone del bagagliaio.

Sono le parole del medico che si disperdono nella notte.

“ Posso spiegare... è mia madre... sono un dottore...”

 

Lo so che ora il lettore, perplesso, dirà “Ma questa è vecchia, l'ho già sentita mille volte”. Oppure, ecco, la solita leggenda metropolitana, o meglio, i lettori più accorti: ma mi ricorda un racconto di un autore famoso... c'è pure il lago!

Eppure... guardando bene negli archivi di un noto giornale, conoscendo l'anno, il mese e il giorno, il trafiletto di cronaca che riporta la vicenda salterebbe fuori in tutta la sua assurdità.

 

Ma poi, cosa importa caro lettore, lo scrivere non è forse finzione?

La vita stessa non è finzione?

Un mentire all'assurdo contrapponendo l'assurdità vera della vita?

Oppure no?

 

 

Questo è un racconto di pura invenzione. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi e personaggi è puramente casuale. Le autovetture, Fiat 600 e Fiat 124, sono le reali protagoniste di quegli anni.

 

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