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Il gallerista

Il diverbio era stato feroce.
Jackson era uscito in strada con quelle parole che gli risuonavano ancora in testa. E con una rabbia che saliva dentro.
- Queste tele fanno schifo! Come pensi che possa vendere queste “cose”? Tu sai che io ho la creme di New York. E investirebbero su questi paesaggi? Lavori così si trovano ad ogni angolo di strada, ma non nella Fifth Avenue.
Questa è solo merda!
E su quelle parole, mentre il gallerista rosso in viso, aumentava in crescendo il suo tono di voce, lui se ne era andato.
Al Green Village i suoi amici giudicavano la sua pittura “Landscape” un po' espressionista, con quei gialli, rossi e rosa che saturavano campi , fiumi e case, ma una pittura dal piglio vivace, espressivo. Certo, non erano più gli anni dell'avanguardia, quelli in cui Andy Warhol aveva fatto di NewYork il faro  mondiale dell'arte.
Jackson era rientrato nello studio di umore nero.
Michael stava cercando di ordinare il loft, ripulendolo dal caos. Tele rovesciate, bicchieri a terra , tartine calpestate, lattine e bottiglie di birra e di vino che sembravano birilli abbandonati sul campo di gioco. La festa era durata sino alle cinque del mattino.
- Che ti succede?
- Quello stronzo!
- Allora? Sputa.
- Non gli sono piaciuti i miei Landescape.
 - Ma sono belli!
- Smettila che non è giornata. Guarda che se non la pianti ti faccio più nero di quello che sei.
- Fanculo!
Aveva mollato un calcio a una lattina e poi si era seduto a terra, la testa chiusa tra le mani. Faceva sempre così quando voleva isolarsi.
Merda, merda, merda quella parola continuava a risuonare nella sua testa. Il pensiero stava diventando ossessivo.
- Vuoi bere?
- No , lasciami stare. Devo pensare.
- Allora io esco.
- Ok, bye Michael.
Ora Jackson era solo nell'enorme studio. Si era alzato ed era andato in bagno.  Seduto sulla tazza pensava a quanto poco questa scena entrava nei libri o nei film. Già la gente non vuol sentire parlare della merd...
Un lampo, come quando d'estate, a ciel sereno, un fulmine taglia il cielo e si pianta a terra. L'idea gli era venuta con la stessa modalità.
Con i calzoni alle caviglie, arrancando era arrivato al cassetto e  aveva preso la macchina fotografica digitale.
Uno, due, tre scatti.
Le sue deiezioni ora erano fissate nella piccola scheda della memoria digitale. Finì i suoi bisogni. Si pulì sorridendo. Dopo essersi lavato le mani si mise al lavoro.
Al computer ingrandì le immagini, le ripartì in tanti frammenti, tagli come quarti di bue.  Esasperò l'ingrandimento; ora l'immagine perdeva le sue connotazioni per assumerne altre. Poteva essere tutto e nulla.
Rovesciò, in preda ad una frenesia crescente, il cassetto dei colori ad olio. Cercò le spatole e si mise al lavoro.

- Jackson, sono rientrato.
- Sparisci, ti richiamo io. Ora sto lavorando.
- Ok, sono a casa mia.
Michael conosceva a fondo gli umori del suo amico. Sapeva che quando era in preda ad una crisi creativa il mondo per lui si fermava. Uscì dallo studio in punta di piedi.
La musica, a tutto volume, di Miles Davis invadeva e saturava ogni spazio.   
Jackson stendeva i bruni, i marroni, in tutte le loro sfumature, con ampi colpi di spatola. Con le dita che creavano sentieri, percorsi nella materia, nel colore. Sullo schermo da sessanta pollici seguiva la traccia degli ingrandimenti fotografici. La spatola scivolava sulla tela spandendo strisce di colore come impronte di pneumatici su di una strada fangosa.
Il tempo si era arreso alla sua azione. Aveva lavorato l'intera giornata senza toccare cibo. La notte, bevendo qualche sorso d'acqua minerale, scorreva via con tale intensità che già le prime luci dell'alba indoravano le vetrate. A  metà giornata dieci tele erano allineate contro la parete del loft.
Per i titoli non c'era problema. Deiezione d'artista N°1,  N°2, N° 3 ecc.
Seduto sul pavimento osservava quelle tele, davvero contenevano tutto e nulla.
- Michael... vieni con il furgone, c'è da imballare delle tele e fare una consegna.
- Ok, arrivo.
Michael aveva una partecipazione del 15% esentasse sugli incassi dei lavori di Jackson, in cambio provvedeva a tenere in ordine lo studio, a rifornirlo di materiali e a fare le spedizioni e le consegne. Sbrigava la posta e si occupava dei cataloghi e dei rapporti con i galleristi. Faceva anche la spesa. Parlava poco ed era sempre allegro. Il suo sogno era di fare il giocatore di baseball, magari prima o poi ci sarebbe riuscito. Intanto nel tempo libero giocava e si allenava. Rubava le basi con la velocità di una saetta. Per lui rubare le basi era ormai una sfida.

- Imballa il tutto e portalo al gallerista. Dagli anche questo biglietto.
- Ok, capo.
Il biglietto era una sintesi di chiarezza.
“ Se non mi prepari un vernissage per venerdì prossimo lo farà il tuo concorrente.
J.”
Un'ora dopo era squillato il cellulare.
- Ehi, ma sono eccezionali... mi ascolti?
- Ti sto ascoltando, allora?
- Certo che lo facciamo il vernissage... Sì, ci sono questi marron, con varie sfumature... però il tratto è marcato, aggressivo, sinuoso. Sono tele fantastiche, ma come hai fatto? Andranno via come noccioline! Dovrò far preparare il catalogo, dovremo trovare un nome per questo tuo nuovo periodo creativo... Hai già un'idea di come chiamarlo?
 

- Merda di gallerista ti andrebbe bene?

 
 

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