Oggi, invece, è un abitacolo di gente danarosa, vip dell’alta borghesia partenopea, ed è costellato di negozi alla moda e ritrovi. Fino a qualche anno fa, però, dove oggi sorgono “boutique” e “pub”, vi erano i “bassi”, piccole e squallide abitazioni che ricettavano intere famiglie di povera gente. Affacciavano direttamente sulla strada ed erano costituiti da una sola stanza nella quale si combinavano diversi ambienti dove si mangiava, si dormiva, si faceva l’amore, si litigava, si nasceva e si moriva. Chi si inoltra ancora oggi nei quartieri Spagnoli o nei vicoletti di Montesanto, o in quelli della Duchesca e di Forcella può facilmente sbirciare, anche solo passando, la struttura di codeste “ favelas” metropolitane. In uno di questi “bassi”, al vico Belledonne, abitava mio nonno, imbianchino, con la moglie e due figli. Il nonno aveva un aspetto imponente e i capelli biondissimi tanto da essere soprannominato “’O Tedesco”. Dati i tempi che correvano c’era ben poco di che imbiancare. La città era in rovina e la gente non aveva denaro per abbellire quei muri o quelle pareti che erano rimaste miracolosamente illese.
Il “soppigno” non era dissimile dal “basso”; anche qui si trattava di una sola stanza multiuso. L’unica differenza era che mentre il “basso” affacciava direttamente sulla strada, il soppigno, invece, altro non era che il soffitto di un palazzo adattato ad alloggio. I nonni trovarono casa in uno di questi “soppigni”, in un edificio ubicato al numero 16 di vico Bausan a Chiaia. La “casa” affacciava, facendo quadrato con altre dello stesso tipo, su una loggetta lastricata di pece con un lavatoio sul lato destro e, poco più in là, un “gabinetto” il cui uso era condiviso tra tutti gli abitanti del posto. C’era tutta brava gente: un fotografo, due manovali ed un falegname con le mogli, due pensionati, uno stormo di bambini e due sposini. Tutte persone semplici che, sia pure tra mille stenti, sopravvivevano con quella dignità morale tipica del popolo napoletano la cui filosofia eleva la comune povertà a ricchezza spirituale. Non era questa gente, tuttavia, immune a quella superstizione che spesso costituisce parte intrigante della vita dei partenopei e ne alimenta la fantasia. A tal proposito correva voce che quell’antico palazzo fosse infestato dagli spiriti. Più di un abitante giurava, infatti, di aver udito sinistri scricchiolii fra le scale o di aver visto strani luccichii negli scantinati. Proprio mia nonna fu testimone e protagonista di un avvenimento tanto particolare da segnarne per lungo tempo la permanenza in quella casa. Il “soppigno” era stato abitato, prima di lei, da una coppia di anziani coniugi: lui fu fatto a pezzi sotto un bombardamento al largo Celebrano; lei, rimasta vedova, si arrangiava rammentando camicie e pantaloni. Non potendo neanche pagare la pur esigua pigione, ebbe l’intimazione di sfratto, e tanto fu lo sconforto che si suicidò precipitandosi dall’alto della loggia giù in vico Bausan. Questo tragico avvenimento suscitò un tale scalpore che tutti ne parlarono per diverso tempo ed il palazzo al numero 16 accrebbe ancor di più la sua fama di luogo sinistro infestato dagli spettri.
Lentamente e con molta circospezione rifece la via e, giunto che fu all’altezza del portone, scoprì con grandissimo stupore che il chiavino si era fuso nella toppa. Quando andò a raccontare l’accaduto molti non gli credettero ed attribuirono il fatto a qualche bicchiere di troppo scolato in osteria. Certo fu che mia nonna, suggestionabile già per natura, provava sollievo al pensiero che difficilmente, anzi mai, si sarebbe trovata a passare nel vicolo nottetempo. Ma non poteva immaginare la poveretta che un episodio quasi analogo le sarebbe capitato di lì a poco in pieno giorno senza neanche muoversi di casa.
- Oggi devo uscire per un lavoro – disse sorseggiando il caffè bollente. Si rase, si vestì in gran fretta, infilò la giacchetta ed uscì. I ragazzi dormivano e la nonna, ritenendo che fosse presto per donarsi alle faccende domestiche, rimase ancora a letto. Nonostante la bella giornata faceva freddo e le lastre di vetro della porta del “soppigno” che, come già detto, affacciava direttamente sulla loggia, erano ben bene appannate. Dal letto, con la porta aperta, si sarebbe potuto vedere all’esterno, ma la porta era chiusa e col vetro appannato la visibilità risultava molto ridotta, anzi si concretizzava in deformate macchie dai contorni sfumati che sembravano colorate a pastello. Ad un tratto l’attenzione della nonna fu attratta da una massa scura che cominciò ad ondeggiare fuori, come se un drappo nero portato dal vento fosse andato ad impigliarsi sulla pensilina dell’uscio. Poi parve come se il vento scemasse di colpo. D’improvviso, come se sollevato da un ascensore, un volto ceruleo si levò dietro la vetrata sulla quale la condensa cominciò rapidamente a sbrinarsi in mille goccioline che, precipitando giù, sembravano rincorrersi l’una dietro l’altra lasciando via via scoprire le sembianze della vedova suicida. La nonna avrebbe voluto gridare, ma non riusciva ad emettere alcun suono. Non poteva muoversi per lo spavento, ed ancorchè la porta del “soppigno” si aprì come sbattuta da un’improvvisa folata di vento, la poveretta fu talmente invasa dal terrore che cominciò a tremare tutta. Fuori sembrava che il tempo fosse repentinamente cambiato: da sereno qual era a buio e tempestoso. La figura, ora completamente distinguibile, rimase qualche istante immobile sulla soglia. Poi sporse il capo all’interno della casa, si guardò intorno, sorrise ed annuì alla nonna, ospite gradita in quel vecchio “soppigno” di vico Bausan.
- Blog di Antonio Cristoforo Rendola
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