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Dondolo

Nessuno gli aveva dato un nome fino a ieri, nemmeno io.
 
Al tempo, quando gli anni ottanta srotolavano dentro a un benessere fatto di computer agli albori, vacanze lunghe e paninari, la mia grande preoccupazione del sabato pomeriggio era andare in centro. Con il tredici, verde marcio a due piani e qualche amica raccattata con citofonata dell'ultimo minuto, si partiva per la missione 'adesivi'. Ci dividevamo appena scese dall'autobus, ognuna munita della propria faccia tosta e con la busta  di plastica vuota ma gonfia di aspettative. Si iniziava così la gimcana per i negozi 'vip' della città alla conquista dell'ultimo 'patacchino'* per poi ritrovarsi stremate alle sei in punto a Porta San Felice a fare la conta di chi ne aveva fatti su di più e dare il via agli scambi. Che, più che scambi, diventavano veri e propri ricatti.
 
Lui c'era. Qualsiasi l'ora che fosse, lui c'era.
 
Anche se non buttavo l'occhio nell'angolo, la sua presenza era percepibile. Forse per l'aria che spostava, per le ciminiere di fumo incessanti o forse perché apparteneva a quell'incrocio da sempre, come le pietre rosse della Porta che gli illuminavano il viso anche quando il tempo grigio non tingeva. La fermata del bus per il ritorno era proprio a una manciata di sguardi dalla sua colonna-casa. Quelle rare volte che si allontanava dalla postazione per andare dal tabacchino a contrattare  un pacchetto di Marlboro, l’ombra gli rimaneva attaccata all’intonaco continuando a dondolare come fosse un’entità tangibile, un sé di sé.
La Pancaldi, la più oca del nostro gruppo, si teneva sempre nella parte esterna del gruppetto-scambio, lontana da lui; credo lo temesse. Non  alzava mai  le palpebre né la testa, come se il non farlo le negasse la presenza. Stava concentrata sul rullare  delle nostre mani mentre sfogliavano gli adesivi e allungava di tanto in tanto il braccio magro per puntare quello a lei mancante. Mi incantavo sul polso ossuto, ricoperto da un orologio enorme a fasi lunari. Gli scatti dei quarti di luna dentro al quadrante mi ipnotizzavano facendomi perdere nello spazio circolare del meccanismo; mi sentivo senza tempo, eterea.
*
Il mondo si muove, lo sanno tutti ormai, ma sembra che nessuno se ne accorga, non come me, almeno. Non è un moto uniforme; la terra accelera quando ci avviciniamo al sole e rallenta quando ce ne allontaniamo. Che poi ci sono anche le spintarelle di lune e pianeti, stelle e galassie.
Così ogni cosa si adatta alle variazioni, qualcuna più velocemente come pietre e sassi che sono compatti, altre più delicatamente come le piante, altre che si fanno confusione come l’acqua. Io me ne accorsi fin da piccolo, per i bambini è naturale, ma per me era più intenso, come una specie di mal di mare continuo.
Capii che potevo usare questo paragone per spiegare ai dottori quello che provavo, solo dopo aver fatto il mio primo viaggio su una grande nave. Perché non sento solo questo e mamma cercò in tutti i modi di farmi curare, anche oltreoceano, anche con l’elettroshock.
Fu un’esperienza terribile quest’ultima; tolse molto alle mie capacità di comunicare, ma aumentò incredibilmente la mia sensibilità. Al punto da realizzare che, non solo potevo assecondare più velocemente degli altri il dondolio del mondo, ma potevo anche condizionarlo, per quanto poco.
Così, invece di limitare i movimenti a rimettermi in asse nel più breve tempo possibile, cominciai a dispormi in modo tale da favorire gli spostamenti che sentivo più utili, sbilanciandomi nella loro direzione. Ecco perché sto qui appoggiato a Colonna. Lei è ben rigida e cambia subito, trasmette immediatamente le nuove direzioni.
E io spingo lei, spostandomi di qua e di là, per dare il mio piccolo contributo. Nessuno vuole credere, quando racconto, quante cose sono riuscito a cambiare soltanto così, assecondando e favorendo il loro corso naturale. A volte sogno un mondo dove tutti dondoliamo insieme.
*
Continuo a sentirmi senza tempo e chi mi sta accanto lo sa bene. Sono in perenne ritardo, come questa mattina che devo accompagnare Allegra a scuola e sono sull’orlo dei minuti. Decido di prendere la preferenziale del bus e a Porta San Felice mi becco il rosso. Un rosso eterno che in altri frangenti mi coccola e mi dilata soste del pensiero; ma oggi no, oggi è un rosso urgente. Allegra si accorge della la mia tensione e stempera dicendo: ‘mamma, pomeriggio mi porti ai giardini, sul dondolo?’.
Mi si riavvolge un nastro, veloce, rumoroso, inconfondibile come il sibilo delle musicassette. Ritorno con la mente là, dall’altra parte dell’incrocio dove Dondolo ha lasciato la sua ombra. Sono passati trent’anni, poco meno, e mi sembra di intravedere l’orma sulla colonna, la sagoma senza età dei ricordi. Certe presenze mute hanno la forza di entrare per sempre e uscire nei momenti più impensati; si infilano sotto le unghie delle dita quando tamburellano impazienti, tra le oscillazioni di un perdono a lungo meditato, dove penzolano le sere in attesa di speranza.
Viene il verde, do gas continuando a fissare la colonna-casa fino a quando il collo scatta alla sua posizione naturale. Scatta. Come il meccanismo dell’orologio a fasi lunari della Pancaldi come il mio sorriso pensando al dondolo di questo pomeriggio.
 
 
 
(selly e ndn)
 
 
 
 
 

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