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L'aveva concessa, un tempo, la proprietà del seno, tanto che, nonostante la sua insofferenza ai tatuaggi, aveva all'epoca preso la decisione di segnarlo con l'iniziale del nome, progetto in seguito fallito per la delusione sopraggiunta di essere solo una delle tante cadute in una ragnatela. Eppure oggi concederebbe volentieri la proprietà esclusiva, con annessi e connessi, per togliersi il peso che quella parte del corpo le stava infliggendo. Persino mentre riponeva le decorazioni natalizie il pensiero le aveva fatto tremare le mani, e incartando con cura ogni statuina del presepe - rito annuale solitario - aveva pianto. E' vero, l'aveva già vissuto, passato e superato il pensiero della morte, e, in definitiva, non era quel pensiero che la spaventava, ma quello della malattia. La malattia può mutare la visione della vita e, nonostante approvasse l'aforisma di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, non l'aveva mai in verità preso sul serio. Forse per una questione di sensi di colpa, di giustizia, di fatalità, di scaramanzia, ogni giorno non voleva che apparisse come l'ultima occasione. E questo pezzo di carne - trattato appunto come pezzo di carne malefico ed ingombrante - segnato e dolorante, non era come la malattia protetta dalla pelle, quella che ti scorre dentro e di cui esteriormente non si ha traccia, ma è toccabile, palpabile, probabilmente gestibile, ma paurosamente visibile. Durante l'intervento era riuscita a superare l'incubo di esserne protagonista fissandosi sull'attenzione agli stimoli esterni, cercando di scordare il formicolio della spalla e della mano ascoltando le conversazioni - l'ironia di far apparire tutto come una battaglia navale cui le coordinate d'abbattimento erano legate ad un ago che aspirava, lo strano suono di ferraglia che fissava il chip che sarebbe servito al chirurgo - ma poi aveva avuto un momento di mancamento quando, distesa ad attendere il fermarsi dell'emorragia, aveva visto i due vetrini circolari con quei rossi pezzettini di sé - così tanti da farle pensare che il seno ne sarebbe stato svuotato - che venivano numerati e inscatolati, immersi poi in un vaso di formalina, era stato proprio quello che l'aveva stravolta, più di quando le prelevavano il sangue, più delle immagini sfocate sul video, più del giorno in cui, lasciata sola nell'ambulatorio, aveva gettato lo sguardo sul monitor leggendo un sospetto che non avrebbe mai voluto vedere. Certo, far parte di 'una donna su dieci' avrebbe preferito esserlo all'interno di un'altra qualsiasi statistica, non tanto perché ne veniva colpita una parte del corpo sinonimo di femminilità - comunque, dopo una certa età, di ben poca importanza estetica - ma perché di questo accadimento ne leggeva quasi una punizione, il protrarsi di una cicatrice che il tempo aveva cancellato, qualcosa che aveva segnato indelebilmente la sua vita aprendole un mondo che non immaginava nemmeno possibile e che, nonostante avesse con forza richiuso quella porta, le appariva spesso in sogno lasciandole la sensazione di un rimpianto che, da sveglia, rifuggiva. Avrebbe preferito aver subito altre torture, quelle di un sentimento malato che trafiggeva il corpo, la schiavitù d'animo l'appartenenza dedicata, piuttosto che essere ora schiava di una malattia.

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