Scritto da © ferdinandocelinio - Dom, 06/01/2019 - 01:19
Sento la routine farsi amante deliziosa,
compagnia da mezzofreddo.
E io non la combatto più.
Passo le giornate davanti alle finestre chiuse,
guardo il soffitto inumidito
e le pareti e m’ingello di stabilizzanti dell’umore,
di pittoresche intromissioni
nel universo caricaturale dell’Es.
Oh , non crediate, ma io sono più vicino alla buddità
di quanto si possa pensare
col mio martirio gocciolante parole e buchi
perché m’ammaestro pedissequamente,
dunque non appartengo a nessun decadentismo,
non appartengo a niente,
io non sono niente,
semplicemente m'innamoro della mia nullità.
*
In fondo, un grido.
Dico: un grido, mondassassino
da rivelarmi la luce d’oro
delle mie iridi violate,
dico: la sapiente mesciatura
della stella e del ricetto del caffè
e tutto attorno paesaggi confusi
del mondochèstato,
divenire, potature dell’affermazione
come una gloria che s’accascia…
goffamente.
*
avvizzisco
come la bella bianca gardenia
piantata sul davanzale della mia pazzia
che succhia l'ultima luce puzzolente
nel silenzio e nella quiete del pomeriggio,
come Socrate
mentre la sua mente elabora
la morte prima della morte,
il colpo nella bieca prigione,
l'esilio volontario
e questa banda di dannati oggetti
sono insignificanti fino al vomito -
il mio accendino, le sigarette,
il grigio Acer Aspire 5630 del 2007-
sono la notte che buca queste pareti
e mi domando cosa ci sia di necessario
nel fondo del dolore
a cosa serva soffrire se non a prepararsi
a una nuova sofferenza
e nella strada i gatti esalano orribili muggiti
e le nuvole cineree sovrastano la luna
con brutale noncuranza,
il sistema d'illuminazione nel quartiere
è rotto,
l'alluce mi duole,
lo scarico nel gabinetto perde
secrezione bianco-giallastra,
mentre io
lontano dal felice ebetismo diffuso
sto avvizzendo,
adesso,
adesso.
come la bella bianca gardenia
piantata sul davanzale della mia pazzia
che succhia l'ultima luce puzzolente
nel silenzio e nella quiete del pomeriggio,
come Socrate
mentre la sua mente elabora
la morte prima della morte,
il colpo nella bieca prigione,
l'esilio volontario
e questa banda di dannati oggetti
sono insignificanti fino al vomito -
il mio accendino, le sigarette,
il grigio Acer Aspire 5630 del 2007-
sono la notte che buca queste pareti
e mi domando cosa ci sia di necessario
nel fondo del dolore
a cosa serva soffrire se non a prepararsi
a una nuova sofferenza
e nella strada i gatti esalano orribili muggiti
e le nuvole cineree sovrastano la luna
con brutale noncuranza,
il sistema d'illuminazione nel quartiere
è rotto,
l'alluce mi duole,
lo scarico nel gabinetto perde
secrezione bianco-giallastra,
mentre io
lontano dal felice ebetismo diffuso
sto avvizzendo,
adesso,
adesso.
la dinamo del mio cervello
chiede soltanto parole,
i demoni dentro sono prudenti
aberrazioni del SI,
e io non do un significato
a questo quieto dolore,
e sono scarico come un accendino abusato,
ho corna dentro, corna rosse,
e forche e fuoco,
avvizzisco nel cuore,
avvizzisco negli occhi,
mi trasformo,
divento di carta
come l'instabile foglio,
divento di pietra,
nell'anima, nella gola,
e i sogni sono solamente
il percorso per la mia follia,
ho sognato tanto
fino a morire
e ora la bianca gardenia
lacrima e diventa di paglia,
è solo un errore, un altro errore,
l'ultimo errore, l'ultima febbre.
*
il locale era deserto.
ferdinando celinio aveva una faccia del colore del carbone quando è stato sbraciato. scura la pelle, splendente il cuore, si persuadeva lui.
non tirava a indovinare, ferdinando celinio, aveva una visione precisa su molte cose. le donne erano importanti ma portavano grane. il sesso era uno stratagemma animale. creare era importante. creare ti innalzava dalla miseria. ti portava nelle alture riservate ai Titani e ti fortificava. era l'unico senso possibile. l'unica salvezza. ma lui non aveva figli, scriveva semplicemente poesie.
ferdinando celinio aveva una faccia del colore del carbone quando è stato sbraciato. scura la pelle, splendente il cuore, si persuadeva lui.
non tirava a indovinare, ferdinando celinio, aveva una visione precisa su molte cose. le donne erano importanti ma portavano grane. il sesso era uno stratagemma animale. creare era importante. creare ti innalzava dalla miseria. ti portava nelle alture riservate ai Titani e ti fortificava. era l'unico senso possibile. l'unica salvezza. ma lui non aveva figli, scriveva semplicemente poesie.
prese il bicchiere e lo sollevò, straniante-opaca sensazione di onnipotenza. c'era anche questo, tra tutto, in fondo.
alla televisione sfilavano ragazzi e ragazze con delle rose in mano. si baciavano, sorridevano, tamburellavano parole con l'urgenza di un bisogno fisiologico. erano contenti. amavano la vita, si vedeva.
erano le 3 e 18 di un pomeriggio invernale.
il Natale come un mal di denti ritornava a vestire le strade. si mangiava tutto, il Natale. era un tritacarne. le lucine intermittenti rosse e verdi coprivano una parete del locale.
c'era un alberello spruzzato di bianco con delle palle azzurro-rosa. c'era anche il Cristo sul muro, in una cornice color oro. c'era la sofferenza del mondo su quella parete mattonellata. la sofferenza era ovunque, ferdinando celinio lo sapeva.
Carmelo Rinciari, il titolare de l'orgoglio nascosto bar, era un devoto di Cristo. anche ferdinando simpatizzava per Lui. si erano trovati spesso a discutere sul senso spirituale dell'esistenza. ferdinando aveva una visione laica, ma non si poneva limiti nell'ascolto.
la vita era una cosa in continuo mutamento. era difficile vivere e capire. le opinioni si ribaltavano e spesso tornavano al punto di partenza. il senso era fermo negli stomaci delle pietre.
invidiava chi non tornava indietro nelle proprie idee. invidiava dell'ignoranza la logica atta a semplificare le cose. gli uomini erano palloni gonfiati, soprattutto gli uomini, e le donne, con la storia dell'emancipazione femminile, ne stavano prendendo il posto. scopavano quanto mangiavano (ed erano molto affamati), avevano grilli saltellanti per la testa che li spingevano verso l'ignominia del successo ad ogni costo. erano delle caffettiere.
i miti alla televisione dettavano le mode e il senso interiore dell'azione. quei ragazzi che vedeva ora sfilare nello schermo dorato erano probabilmente dei celebrolesi, eppure i giovani andavano pazzi per loro, si vestivano come loro, usavano gli stessi tagli di capelli, parlavano nello stesso modo, sarebbero voluti essere come loro, sarebbero voluti essere loro.
ferdinando celinio non era disgustato né sorpreso. semplicemente accettava il brodo merdoso in cui affogavano le cose.
"Carmelo, una tennent's super in bottiglia." disse, e decise che i pensieri erano abbastanza.
l'alcol era sottovalutato. l'alcol avrebbe salvato il mondo.
alla televisione sfilavano ragazzi e ragazze con delle rose in mano. si baciavano, sorridevano, tamburellavano parole con l'urgenza di un bisogno fisiologico. erano contenti. amavano la vita, si vedeva.
erano le 3 e 18 di un pomeriggio invernale.
il Natale come un mal di denti ritornava a vestire le strade. si mangiava tutto, il Natale. era un tritacarne. le lucine intermittenti rosse e verdi coprivano una parete del locale.
c'era un alberello spruzzato di bianco con delle palle azzurro-rosa. c'era anche il Cristo sul muro, in una cornice color oro. c'era la sofferenza del mondo su quella parete mattonellata. la sofferenza era ovunque, ferdinando celinio lo sapeva.
Carmelo Rinciari, il titolare de l'orgoglio nascosto bar, era un devoto di Cristo. anche ferdinando simpatizzava per Lui. si erano trovati spesso a discutere sul senso spirituale dell'esistenza. ferdinando aveva una visione laica, ma non si poneva limiti nell'ascolto.
la vita era una cosa in continuo mutamento. era difficile vivere e capire. le opinioni si ribaltavano e spesso tornavano al punto di partenza. il senso era fermo negli stomaci delle pietre.
invidiava chi non tornava indietro nelle proprie idee. invidiava dell'ignoranza la logica atta a semplificare le cose. gli uomini erano palloni gonfiati, soprattutto gli uomini, e le donne, con la storia dell'emancipazione femminile, ne stavano prendendo il posto. scopavano quanto mangiavano (ed erano molto affamati), avevano grilli saltellanti per la testa che li spingevano verso l'ignominia del successo ad ogni costo. erano delle caffettiere.
i miti alla televisione dettavano le mode e il senso interiore dell'azione. quei ragazzi che vedeva ora sfilare nello schermo dorato erano probabilmente dei celebrolesi, eppure i giovani andavano pazzi per loro, si vestivano come loro, usavano gli stessi tagli di capelli, parlavano nello stesso modo, sarebbero voluti essere come loro, sarebbero voluti essere loro.
ferdinando celinio non era disgustato né sorpreso. semplicemente accettava il brodo merdoso in cui affogavano le cose.
"Carmelo, una tennent's super in bottiglia." disse, e decise che i pensieri erano abbastanza.
l'alcol era sottovalutato. l'alcol avrebbe salvato il mondo.
ferdinando celinio ne bevve 6, lisce. si erano fatte le 4 e 42.
il cielo, vivace macchia d'azzurro che sanciva l'aria gelida del primo Dicembre, cominciava a dare sul pugna-nero, come una bestemmia o un'emozione funerea.
ferdinando celinio controllò lo schermo traslucido del suo telefonino e per un attimo fu come se la vista si annebbiasse. vedeva solo la scritta metallica che diceva "Huawei", poi, tutt'attorno, solo luci confuse, aloni sfocati.
cazzo, pensò, che ti prende Rombo di Tuono?
"Meloo!"
"si?"
"gin con acqua".
sorseggiò il suo gin con cura spirituale. era solo un debole alcolizzato. era una merda rinsecchita!
vennero le 5 e all'orgoglio nascosto bar cominciò un via vai di gente.
un uomo di mezz'età coi capelli giallo-brizzolati gli si sedette accanto. aveva grossi baffi grigi, portava una giacca di velluto nera e una sciarpa rossa con delle grosse macchie bianche nel mezzo.
"l'anima degli artisti è macchiata nel cuore" biascicò celinio.
"cosa intendi?"
"lei deve essere un poeta. scriverà di gnomi e folletti o forse di Dio o del dolore del mondo che lacera lo spazio. io ho occhio per certe cose" incalzò lui.
"per carità!"rispose l'uomo brizzolato "io sono una persona per bene! ho la mia istruzione e leggo certe riviste per UOMO, ma non perderei mai il mio tempo a imbrattare fogli ad un ora tarda della sera. c'ho la mia dignità, io"
"lei lavora in un ufficio?!"
"come diavolo fai a saperlo?"
celinio non rispose. immaginò, per un attimo, la vita dell'uomo seduto accanto a lui. immaginò il cartellino giallognolo che doveva essere timbrato ogni mattina. immaginò le unghie dei piedi smaltate delle colleghe grassocce, nelle giornate di prima estate, le gocce spesse di sudore che scivolavano dalla fronte nello sbrigare questa o quella pratica, le risate forzate, il senso fasullo della colleganza, la stanchezza, la routine, il ticchettio dell'orologio, lento, aspettando che venissero le 8, aspettando di potere tornare a casa, mangiare e mettersi a dormire. la vita era per tutti una galera.
era fortunato ferdinando celinio. avere la possibilità di starsene da solo, credendosi un poeta, credendosi migliore delle prime 500 persone che avrebbe incontrato. era proprio una fortuna bell'e buona. la vita era degli uomini fantasiosi.
la vita era dei ribelli.
guardò l'uomo con una certa tenerezza, ma poi pensò alle 5 azioni orribili che quello aveva dovuto compiere durante la giornata.
ora se ne stava lì, nell'unico giorno di riposo, a bere un martini dry alle 5 del pomeriggio.
"e tu? di cosa ti occupi tu?" chiese l'uomo
"di morire il più tardi possibile" lo freddò celinio.
"sei un ragazzo spiritoso. sicuramente avrai frequentato l'Università!"
"si. andavo nella facoltà di ingegneria a rubare le merende ai figli dei ricchi."
"ahahaha. bé, questo non è carino."
"neanche il culo di tua madre lo è."
"come hai detto?"
"niente. cantavo."
"sei proprio un bravo ragazzo. ce ne vorrebbero al mondo di bravi ragazzi come te. la società ha basi robuste e ha bisogno di gente che presti il culo alla sua glorificazione."
"la società mi disgusta."
"COMEE? COME DICI? PERCHE' UN'AFFERMAZIONE TANTO AZZARDATA?"
"perché è ingiusta, la società. e sono stupidi i pidocchi che per una vita intera gli prestano il culo per glorificarla. sono pidocchi insulsi."
l'uomo non disse niente. bevve ciò che rimase del suo martini e se ne andò discretamente, silenziosamente.
ferdinando celinio era ubriaco. ferdinando celinio era crudele. era un mostro, un demone, un carnefice, era come tutti gli altri, era peggio degli altri, sarcastico e giudicatore, senza sentimenti autentici, senza un briciolo di anima. bevve d'un fiato il gin con acqua, uscì nell'aria fredda del pomeriggio. una cornamusa, lontana suonava Bianco Natal. lui accese una sigaretta, aspirò una boccata profonda, le mani gli si congelarono a contatto con l'aria gelida.
non aveva anima, era una nullità. la gente lo guardava, lui non guardava la gente. tornò a casa in silenzio, tenendosi con le mani al muro, come per non affondare in una voragine.
ferdinando celinio controllò lo schermo traslucido del suo telefonino e per un attimo fu come se la vista si annebbiasse. vedeva solo la scritta metallica che diceva "Huawei", poi, tutt'attorno, solo luci confuse, aloni sfocati.
cazzo, pensò, che ti prende Rombo di Tuono?
"Meloo!"
"si?"
"gin con acqua".
sorseggiò il suo gin con cura spirituale. era solo un debole alcolizzato. era una merda rinsecchita!
vennero le 5 e all'orgoglio nascosto bar cominciò un via vai di gente.
un uomo di mezz'età coi capelli giallo-brizzolati gli si sedette accanto. aveva grossi baffi grigi, portava una giacca di velluto nera e una sciarpa rossa con delle grosse macchie bianche nel mezzo.
"l'anima degli artisti è macchiata nel cuore" biascicò celinio.
"cosa intendi?"
"lei deve essere un poeta. scriverà di gnomi e folletti o forse di Dio o del dolore del mondo che lacera lo spazio. io ho occhio per certe cose" incalzò lui.
"per carità!"rispose l'uomo brizzolato "io sono una persona per bene! ho la mia istruzione e leggo certe riviste per UOMO, ma non perderei mai il mio tempo a imbrattare fogli ad un ora tarda della sera. c'ho la mia dignità, io"
"lei lavora in un ufficio?!"
"come diavolo fai a saperlo?"
celinio non rispose. immaginò, per un attimo, la vita dell'uomo seduto accanto a lui. immaginò il cartellino giallognolo che doveva essere timbrato ogni mattina. immaginò le unghie dei piedi smaltate delle colleghe grassocce, nelle giornate di prima estate, le gocce spesse di sudore che scivolavano dalla fronte nello sbrigare questa o quella pratica, le risate forzate, il senso fasullo della colleganza, la stanchezza, la routine, il ticchettio dell'orologio, lento, aspettando che venissero le 8, aspettando di potere tornare a casa, mangiare e mettersi a dormire. la vita era per tutti una galera.
era fortunato ferdinando celinio. avere la possibilità di starsene da solo, credendosi un poeta, credendosi migliore delle prime 500 persone che avrebbe incontrato. era proprio una fortuna bell'e buona. la vita era degli uomini fantasiosi.
la vita era dei ribelli.
guardò l'uomo con una certa tenerezza, ma poi pensò alle 5 azioni orribili che quello aveva dovuto compiere durante la giornata.
ora se ne stava lì, nell'unico giorno di riposo, a bere un martini dry alle 5 del pomeriggio.
"e tu? di cosa ti occupi tu?" chiese l'uomo
"di morire il più tardi possibile" lo freddò celinio.
"sei un ragazzo spiritoso. sicuramente avrai frequentato l'Università!"
"si. andavo nella facoltà di ingegneria a rubare le merende ai figli dei ricchi."
"ahahaha. bé, questo non è carino."
"neanche il culo di tua madre lo è."
"come hai detto?"
"niente. cantavo."
"sei proprio un bravo ragazzo. ce ne vorrebbero al mondo di bravi ragazzi come te. la società ha basi robuste e ha bisogno di gente che presti il culo alla sua glorificazione."
"la società mi disgusta."
"COMEE? COME DICI? PERCHE' UN'AFFERMAZIONE TANTO AZZARDATA?"
"perché è ingiusta, la società. e sono stupidi i pidocchi che per una vita intera gli prestano il culo per glorificarla. sono pidocchi insulsi."
l'uomo non disse niente. bevve ciò che rimase del suo martini e se ne andò discretamente, silenziosamente.
ferdinando celinio era ubriaco. ferdinando celinio era crudele. era un mostro, un demone, un carnefice, era come tutti gli altri, era peggio degli altri, sarcastico e giudicatore, senza sentimenti autentici, senza un briciolo di anima. bevve d'un fiato il gin con acqua, uscì nell'aria fredda del pomeriggio. una cornamusa, lontana suonava Bianco Natal. lui accese una sigaretta, aspirò una boccata profonda, le mani gli si congelarono a contatto con l'aria gelida.
non aveva anima, era una nullità. la gente lo guardava, lui non guardava la gente. tornò a casa in silenzio, tenendosi con le mani al muro, come per non affondare in una voragine.
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