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La fantascienza etnica di Martin.

Animato dalla provocatoria intenzione di dimostrare e diffamare il fascismo strisciante di Heidegger, mi sono procurato alcuni dei suoi “Quaderni neri”, sorta di zibaldone segreto che egli ha tenuto per diversi anni, affidandone la cura ad alcuno che avrebbe dovuto renderli pubblici solo a trenta anni dalla sua scomparsa. E, sorpresa, trovo invece che egli abiura la sua adesione al nazional-socialismo in virtù del rovesciamento dei “valori” che aveva creduto di scorgervi. In un certo senso, possiamo condividere una battuta di un amico col quale ne discutevamo: i nazisti erano troppo “moderati” per Heidegger …
Come confessa lui stesso, aveva creduto di ravvisare nell’avvento del nazional-socialismo, tra gli anni `30 e `34 precisa lui, l’”altro inizio” della storia, sottintendendo a ciò la storia dell’essere. Ora, se la differenza essenziale che lui aveva stabilito fra essere ed ente intendeva far comprendere il primato del primo sul secondo, essendo l’essere ciò di cui ne va per l’essere, e non l’ente, ossia non il presente percepito dai sensi- cioè, non il mondo sensibile materializzato, ma un altro, soprasensibile e ultra-metafisico – se questo era il senso della sua fatica, il nazismo si era invece immediatamente rivelato nella sua più profonda mala-intenzione: la violenta depredazione dell’ente e al diavolo l’”essere” … perciò non era più interessante. L’idea della trasvalutazione dei valori, risalente a Nietzsche, era stata reinventata da lui come grimaldello dell’”altro inizio” della storia, quella dell’essere ed era bensì un atto predace, impiantato su una base pulsionale-germanica, ove le spinte radicali dell’inconscio (tedesco) coincidevano con una sorta di aurora (o tramonto: è lo stesso) della Aletheia, la verità auto-rivelata. Ma il concetto della trasvalutazione era poi stato intercettato dai nazisti semplicemente come crudeltà, ossia cinica mancanza di scrupolo umano nella razzia mondiale di ciò che per Heidegger non era che l’ente. Ecco dove, uscendo un pochino dalle righe, si può insinuare che li nazismo dei nazisti fosse un tantino “moderato” per quello di Heidegger: lui parlava dell’evento, dell’aggressione semi-pulsionale (l’”impulso”) dello spirito tedesco sull’essere, sulle fondamenta ontologiche cioè dell’universo.
Onde permettersi epistemologicamente questa specie di “perversione”, era andato a ripescare fra le macerie di una sorta di archeologia dello spirito germanico l’antico anelito “missionario” del suo popolo. La missione dei tedeschi antichi era “salvare il mondo” (ossia, l’impero romano e cioè ancora, il sacro-romano-impero); quella di Heidegger, tedesco del ‘900, “salvare l’essere”. Una missione che, a sua detta, soltanto i Tedeschi potevano assolvere, perché soltanto i Tedeschi possedevano la chiave del paradiso dell’essere: la lingua, il tedesco, pari solo al greco antico per affrontare questa “missione”. Questa forma di follia razionalmente organizzata presupponeva almeno due premesse: uno, che esistesse qualcosa come la verità  conservata al di là di ogni apparenza come struttura basilare dell’essere (di cui l’ente era emanazione e il linguaggio il nunzio); e, due, che il patrimonio mitico dei Germani contenesse una qualche premonizione di tale verità. Ma attenzione: Wagner, con il persuasore occulto della sua musica ipnotizzante, è giudicato come il massimo agente fuorviante della macchinazione che spinge l’uomo sulla via della mala-essenza, e Spengler viene addirittura deriso. Quindi, dove andare a pescarla la differenza tra questi ultimi e la sua differenza ontologica?
Ebbene, a mio vedere Heidegger concepì il più rozzo sproposito cozzando contro la parete dell’inconscio (manco a dirlo, disprezzava anche Freud). L’ES non era più il pozzo profondo delle rapaci pulsioni umano-animali, ma l’abisso onde cui l’essere si scaricava sull’ente, di modo che quest’ultimo solo dopo la sua Odissea dentro tale abisso si sarebbe innalzato alla radura ove gli uomini e gli dèi  si replicano. La pulsione era l’evento: l’uomo tedesco doveva errare all’interno della pulsione, gettarvisi, e quindi indurre il tramonto dell’ente scaricando tutte le sue spinte predatorie, diventare “ciò che si è” e approdare nella luce della verità all’essere. Questo fu più o meno per lui la trasvalutazione e il super-uomo ereditati da Nietzsche. E solo ai Tedeschi era dato di realizzare il programma, perché solo ai parlatori del tedesco era condiviso il dono di quella particolare divinità: contenere il Dio, sia pure non rivelato, all’interno del patrimonio mitico-genetico del loro “evento”, ossia della pulsione, dell’inconscio.
È questo “diventare ciò che si è” tedesco che cova i germi della follia. Se si dà libero sfogo agli eccessi della pulsione, non abbiamo il finale necessario della civiltà occidentale come tramonto, ossia consumazione, dell’ente a tutto vantaggio di verità ed essere; ma qualcosa di analogo a ciò che avviene nei sogni e negli incubi del mondo onirico: violenze, squartamenti, distruzioni e tragedie di ogni sorta. NON È VERO che esiste un abisso e non un inconscio. E dentro questo abisso immaginario non c’è, non c’è la verità definitiva scaturente da una essenza invisibile che sarebbe la missione divina dell’uomo incarnato e radicato nella germanicità. Si può condividere l’invisibilità delle nostre essenze, in quanto esseri pensanti; si può condividere che i non-pensanti si abbandonano alla facile scala-valori dell’apparenza e che non sappiamo un accidenti della escatologia recondita dell’universo. Ma le pulsioni umane scaturiscono dalla condizione animale del corpo vivente e costituiscono il fondamento limbico di desideri e ambizioni, il cervello antico dell’uomo, che non connota alcuna verità assoluta, né “germanica”, né altro. Così, l’illusione pressoché delirante della verità essenziale radicata al suolo tedesco della missione, come dire?, millenaria dell’essere, riprecipita invece nel pensiero mitico del primitivo- proprio ciò di cui si accusa Wagner e compagnia. E il mito tedesco sprofonda nella vergogna, nella macchia indelebile dei Lager. Laggiù, dove si consuma la definitiva tragedia tedesca, proprio ciò che prima paventavamo si avvera: gli incubi del mondo onirico si mutano in realtà. Quelle premesse inducono a questa soluzione, ed è fatalmente proprio lì che sono approdate.
Perché infine a voler ribaltare l’inconscio e l’abisso si compie l’errore irreparabile: se l’inconscio è divenire, se è qualcosa che si evolve costantemente e che, come insegnava il Rizoma, si moltiplica non appena sembra concedersi, l’abisso invece è fermo. Va immaginato come un Dasein statico, destinato per sempre a ri-diventare ciò che già è. Il che non è vero. Specie per chi sostiene che il tempo è una specie di fuga inafferrabile e l’ente-uomo uno spettro che ci sciaborda dentro.
Tutto questo esprime un fascino cupo e apocalittico che, per assonanza, ci evoca più la saga cinematografica di “Alien” che la “scienza della logica”. Questi abissi, queste tenebre, questo Essere nascosto e germanico, simile alle solitudini senza tempo di un Nosferatu tragico e Jugendstil, rimandano alle aure della fantascienza contemporanea e tali diventano quando egli vi appone una assurda marca etnica. Che trascina infine il mito in paesaggi deliranti ove punge solo il lezzo del massacro.
 
   
 
 
 

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