- E’ già tutto fottuto, finito, zum Teufel…! – Pensò Göbbels al guizzo di latte elettrico del neon che, nell’asfittico cubo cenerino del bunker, piú consono ad un regime carcerario che a un rifugio, sputava a intervalli la sua luce opalescente, cadenzandola al grave pulsar di bombe russe e americane, là fuori, che se l’inghiottivano come un rullo di tamburo divora la calma che infrange.
- Scheiss… - Pensò Göbbels ricordandosi dei fasti, della dolce-vita, del glamour precedente, ove poteva tuffarsi tronfio e gaudente, contornato dall’ossequio servile e atterrito dei sottoposti, nonché dei favori di fanciulle e attricette del mondo dorato del palcoscenico. Era lui stesso una star, quando montava in cattedra, davanti a milioni di individui, e li soggiogava e li sottometteva col suo eloquio mordente spiritato ipnotico. Ah, se sapeva come domarli, convincerli, indurli in tentazione!… Ripensava al sogno di gloria della sua dissennata mediocrità, che lo sapeva di essere mediocre, d’esser nato mediocre – senza genio, senza fantasia, senza “slancio”, per così dire – ma solo ambizioso. Anzi, di piú. Ansioso, smanioso di scalare il mondo, di scardinarlo e metterselo sotto i tacchi. Mostrargli finalmente il furore e il riscatto e la vendetta che covavano al disotto della sua scialba sembianza. Riaccarezzava la fosca apoteosi di quella nera gloria, che pure aveva assaporata e degustata, di porsi al di fuori dei comandamenti umani e delle tiepide norme che li regolavano, di mostrarsi al mondo come Dio o come Satana, è uguale, non importava, né importava il prezzo di trionfi così eccelsi, incondizionati, supremi. Già, aveva sacrificato al suo angelo sterminatore quel gran pezzo di femmina boema con cui tradiva la moglie, e, in cambio, per farsela perdonare, gli aveva regalato la “notte dei coltelli”, al suo leader, mettendo sul piatto il sacrificio di migliaia di stramaledetti innocenti per pareggiare il conto…
- Maledetti! – Pensó Göbbels – Maledetti giudei, comunisti, americani. Tutta l’accozzaglia della feccia vigliacca del mondo ! Maledetti! E adesso mi tocca morire! Maledizione! Verflixt! – Pensava Göbbels, ingoiando quel fiele aspro che, lo sapeva, prima o poi avrebbe dovuto mandare giù, senza scampo, già. Ma chi l’avrebbe detto poi che sarebbe stato adesso, ora, qui? E che sarebbe stato così aspro, amaro, duro da ingollare? Lo sapeva, maledizione, lo sapeva che quella “apocalisse in gloria” non poteva che finire così, che non si ammazza impunemente e senza scopo, senza che prima o dopo arrivi qualcuno a farti fare la stessa fine. Sí, ma chissenefrega, tanto conta solo quello che c’è qui, adesso, in questo momento, e il “questo momento” di quando sei forte e primo e il mondo lo tieni in pugno e puoi schiacciarlo soltanto facendo un cenno con gli occhi, e senti in fondo alla tua anima, lercia o limpida che sia, tutta la potenza, ossia, la volontà di potenza… - O, was geht mich an, denn? Chissenefrega! – Pensó Göbbels. – Niente vale niente! Ho mandato a morte milioni di zecche, di microbi insignificanti, tali e quali come me, come tutti. E adesso tocca a me crepare, è uguale! Non me ne frega un cavolo. Ma ci ho avuto il mio momento, per Dio! Allora sí che valeva la pena! Sí, allora sí, sí, Dio, Dio, o Gott!… - Mormorò Göbbels commovendosi di sé e del suo destino.
Ero forte, andavo forte, pensava, chi l’avrebbe detto che uno come me, uno piccolo brutto e stronzo come me sarebbe andato così lontano? Tutti li avevo in pugno, tutti! Schiacciarli così, come piccoli pidocchi rognosi. Così, crac, così, Schweinehunde! Arschloch!
La moglie lo guarda, mentre insieme versano il cianuro nelle capsule delle loro cinque bambine e del maschietto.
- Hai paura? – Gli domanda. Lui la guarda negli occhi chiari, pensa all’attricetta che ha dovuto lasciare, agli ebrei massacrati, alle estasi valpurgiche, alle buie glorie funeste delle gesta e dell’epica barbara del Terzo Reich.
- La paura non c’entra. – Le rispose con uno strano sorriso. – Per dove sono io, per la strada che io ho fatto, la paura è fuori luogo.
Quando tutto fu finito, si ritrovarono da soli nella loro ultima dimora. Le guardie, fuori, erano istruite a entrare soltanto dopo aver sentito le esplosioni dei due colpi che le avvisavano del loro avvenuto suicidio. Aveva compiuto la sua ultima infamia, massacrando le sue stesse creature. Ora non restava che il passo finale e sarebbe sprofondato nel niente e nel male, elementi in cui d’altronde aveva pur sempre grufolato, fin da piccolo. Che gl’importava ormai? Che contava adesso star lí a spulciare tutte le malefatte, tutte le piccole e grandi ignominie di una vita come quella? Fare rendiconti, tirare somme pidocchiose come maledetti mercanti semiti, lui, scrupoloso e alacre antisemita? No! Lasciar perdere. Farla finita, ora, subito! E tuttavia titubava, con l’arma in mano, senza sembrare di sapere cosa dover fare.
Così guardò implorante la moglie negli occhi e le porse la Luger come in un atto di preghiera.
- Dà qua, vigliacco! - Disse lei. – Neanche questo! – Aggiunse mirando alla fronte. E lo abbatté, pensando anche lei, stavolta, all’attricetta boema. Il rinculo del pesante revolver le spinge la mano armata contro il viso, ferendola. Così che vorrebbe urlare e dire qualcosa contro Dio. Maledirlo. Bestemmiarlo. Ma dalla gola non esce che una specie di rigurgito disgustoso oltre che fuori luogo. Allora ci pianta sopra, sulla gola, la canna ancora rovente della Luger e preme il grilletto…
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