L’uomo che non sapeva prendere | Prosa e racconti | Hjeronimus | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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L’uomo che non sapeva prendere

NB: Ragazzi, ve lo dico prima: quel che segue è quasi autobiografia pura. Il mio cuore è messo a nudo: non infierite.
  

 

“Prendimi!”, disse lei. Sentii il suo bel corpo fremere e agitarsi sotto di me. Eravamo soli in casa, distesi sul mio letto, posto accanto a quello di mio fratello, nella nostra angusta cameretta, munita solo di una specie di oblò che dava su un cortile affogato nel quadrato delle quattro pareti del grattacielo, sporco e senz’aria - che non valeva neanche la pena di aprirlo, quel finestrino, col rischio di incamerare polvere invece che ossigeno.

I miei eran fuori, al lavoro o vattelappesca dov’erano, chi si ricorda. Lei catturò il mio polso e, tirandolo, diresse la mia mano sul suo magnifico seno, fremente anche quello, caldo, eretto: sembrava anche lui dicesse “Prendimi! Tastami! Maltrattami!” come tutto il resto. 

Io guardai, un po’ sorpreso del resto, quel magnifico oggetto del mio desiderio che mi si offriva, che si abbandonava consenziente appunto alla “spinta” del mio concupirlo, della mia voglia di arraffarlo, violarlo, stuprarlo.

E dissi no. Qualcosa disse no, dentro di me. Mi lasciai cadere senza parole. E, richiesto di spiegazione, non fui neanche convincente nel balbettarne qualcuna.

 

Anni dopo, telefonai a un tale. Ero affamato di lavoro e, al solito, senza un centesimo. Lui era il padre di una ragazza che conoscevo, anzi di due sorelle carine e intelligenti. Era titolare di una editrice d’arte e gli chiesi se potevo offrirmi per una collaborazione. Conosceva già il mio carattere e le mie attitudini, così mi disse quasi di sì. Mi fissò un rendez-vous, si raccomandò che portassi un po’ di lavoro onde mostrargli le mie risorse e si congedò amabilmente, rimandandomi all’indomani, quando ci saremmo visti. Che non avvenne mai. Non ci andai. Non lo so perché.

 

Poi, magari, pagavo per frequentare un corso di lingue: arrivavo fino alla fermata dell’autobus. Arrivavo persino ad aspettare cinque minuti che arrivasse… ma non arrivava… così le mie gambe intraprendevano una specie di variante semi-inconscia e finivo per ritrovarmi su una panchina, ai giardini pubblici, a osservare bambini e cagnolini e tutto quanto c’è di carino e di gentile al mondo per riuscire a disprezzare anche quello, per arrivare ad ammantarlo di odio e disperazione, come tutto il resto – che tutto è negato e io non sentivo che l’odio e il rifiuto del mondo.

 

Incominciai così a gingillarmi con le astruserie dell’arte e della filosofia. Il mio bugigattolo si colmò di libri e di carte. Disegnavo e leggevo, leggevo e disegnavo. Formulavo teorie fondamentali, dimenticate il giorno dopo. Facevo opere piene di tutto che si accatastavano in un angolo a impolverarsi e a deteriorarsi infallibilmente. Ridotto alla fame, venne un amico a visitarmi, scorse i miei scritti e i miei disegni e, dacché scriveva per un periodico, si interessò, trovandola interessante, a che la mia roba venisse pubblicata. Non lo impedii e lui ebbe successo – nel senso che gli riuscì di farmi avere successo.

Così, mi arrivarono dei soldi e con quelli un’ammiratrice, una laureata in lettere moderne che disse, voleva occuparsi della mia opera. Mi faceva il filo e finimmo a letto. Quando lei si accorse che stava per succedere (quello che era già successo, intendo), fece tutto da sé. Così si finì per fissare la data delle nozze, al Comune.

Due ore prima montai su un treno. Quando mi sembrò che aveva camminato abbastanza, scesi. Lì, nessuno parlava la mia lingua, così presi una stanza e ci rimasi. Era un posto schifosamente bucolico. Non si vedeva altro che mucche  e prati, all’infinito. Era un anonimato assoluto, il niente fatto villaggio, il nichilismo in versione pastorale, non sembrava di esisterci sul serio, non c’era il “divenire” laggiù, ammesso che ci sia davvero qualcosa come il divenire. Ci restai un pezzo. Mi sentivo un Nietzsche a Sils-Maria, non lontana del resto. Il mio amico giornalista, di tanto in tanto, mi inviava dei crediti maturati sui diritti d’autore e campicchiavo e tiravo avanti così, esattamente come le mucche, mie dirimpettaie. Brucavo la mia erba e se sentivo dei desideri, brucavo più forte, per così dire, fino ad ottunderli. Ma la maledetta fama mi inseguiva, così un dì venni rintracciato da un “grande editore” che mi si presentò con una cifra colossale per vendergli i miei scritti.

Gli accennai un “Va bene.”, ma rimontai sul treno e scappai all’incontrario, rifacendo inversus il medesimo percorso dell’altra volta. La laureata mi ritrovò e mi costrinse a sposarla. Davanti al messo comunale dissi “No.”, ma ci sposarono uguale, chissà, magari non sentivano la mia voce arrochita dal finestrino aperto, sul treno.

Da tre giorni sono qui, ricoverato in quest’ospedale. Dicono che non è niente e che con gli antibiotici, qui, passerà presto. Ma non li voglio gli antibiotici. Li butto via di nascosto. Non voglio “guarire”: cosa è “guarire”? Non voglio stare in ospedale. Non voglio essere malato, né sposato, né men che meno scrittore.

Non lo so cosa voglio. 

 

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