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Post-Foucault. Postille

La parola è una metafisica, afferma Foucault citando Adam Smith (Le parole e le cose). E quando arriva alla parola “essere” ci ribadisce un concetto fondamentale: questa parola è il presupposto di tutte le altre – senza “essere” nessuna parola (nome verbo concetto) è. Così si spiega, ci mostra, l’origine, l’archeologia di ciò che è. Ma il nodo non si scioglie. L’enigma dell’essere non viene meno. Il mistero dietro la parola resta, è spiegato ma resta.
E per me la oscurità del verbo essere sta comunque nel suo “biotopo” linguistico: non si spiega perché è ciò che dovrebbe spiegare, non ciò che dev’essere spiegato. “Essere” è dentro la lingua, come Foucault illustra bene, non nelle cose: è uno specchio “parlato” di ciò che i sensi percepiscono, un doppione, una replica del mondo che non presuppone neanche l’esistenza del medesimo. Nel “parlato” il mondo scompare, lasciandone emergere soltanto un duplicato, una traslazione che forse gli resta appesa in qualche modo, ma che poggia l’esistenza stessa, l’essere solo su di sé. Ecco dunque che ciò che esiste se ne sta accucciato nel linguaggio come un feto nella pancia della mamma. Di modo che l’essere del mondo e delle cose non è altro che esistenziale: c’è uno, un testimone che guarda e che parla (per dirla à la Foucault); è l’unico, non può essercene un altro, ed è “io”. Ciò che dice, i nomi che conferisce alle cose, è genetico, non legato. Ossia, il suo linguaggio crea ciò di cui si pone l’interrogazione ed è il lato concreto della sua invenzione; è il mondo a essergli conseguente, non viceversa. Il linguaggio, per noi, viene prima del mondo ed è lui stesso, nel suo specchio che specchia se stesso, il mondo “reale” e riflesso, al contempo, di contro a quello spettrale e inafferrabile delle “cose”. La Natura se ne resta nel suo angolino, incontaminata, universale: ma a tale imperturbata universalità fa opposizione, fa resistenza il linguaggio, “ristampandola” in un codice che la inchioda alla individuazione, dis-universalizzandola: il mio cane, là in terra, è universale, se vogliamo, assoluto. Io no, io sono, e sono quindi storico, limitato, transitorio: il transito di qualcosa che è perché transita; che diviene in quanto sta divenendo.
Prendiamo una cosa come la Fantascienza: perché ci appare come qualcosa di fantastico o di irrealizzabile se poi invece, col tempo, diventa realtà? Come funziona? Perché si ripromette qualcosa di impossibile (per Verne, andare sulla Luna, navigare sotto i mari) che poi, ogni volta che invece si realizza, sposta ulteriormente in avanti la spia di tale impossibilità? Vediamo: affinché appaia la Fantascienza bisogna che prima si dischiuda l’affacciarsi della scienza sull’orizzonte umano: è solo quando la scienza separata e razionale del XVI secolo appare che il Fantastico si distacca dal Magico per poter iniziare ad immaginare diavolerie tecnologiche, non più apotropaiche.  
Nel momento in cui la scienza si impone come tale, il Fantastico le scappa avanti per sopravviverle, salvo poi essere raggiunto e surclassato. La scienza si pone così come una sorta di verifica di ciò che, prima che si compia, viene immaginato: bisogna che qualcuno immagini le invenzioni affinché queste poi maturino. Il linguaggio crea letteralmente dal nulla gli oggetti del proprio sapere, li fa esistere e poi  ne dimostra l’esistenza: l’essere è un linguaggio esistenziale.
Le cose, dunque, a sé stanti nella loro imperturbata, impenetrabile universalità, non esistono... Esistono solo le parole che, nominandole, ci restituiscono l’illusione della loro esistenza – ma “esistere” non possono, essendo la parola “esistere” una parola e non qualcosa. A tale stregua, non esiste neanche l’universale, esiste soltanto ciò che è nominato: in sé non è niente, l’essere è solo dentro le parole e queste dentro un vivere che non sta che in un unico e solo ente: io. Un io che è sospeso e forse magari nient’altro che un transito verso qualche altra entità che non è neppure sfiorabile da questo linguaggio, limitato- eppure trasceso- come è da questo essere col quale si immedesima. Forse, il linguaggio è un’astronave che viaggia alla volta di qualche costellazione trascendentale ove tutto potrà esistere e le stelle diranno: io, o magari: io sono. Ma non qui, non ora. Qui c’è solo l’essere scritto e parlato che non può dar luogo ad altro esistere che questo stesso che indaga se stesso. E che può solo prefigurare e opinare che il proprio esistere “apra” all’esistere di qualcos’altro, altrove. Ma che, per quanto sta in lui, per quanto sta in me, io non dispongo minimamente di alcuna possibilità di far uscire il mio esistere fuori, sulle cose e sul mondo.
Tuttavia, non bisogna esagerare: ecco cosa mi gragnola in zucca sia alla lettura della indagine di Foucault che alla mia stessa riflessione. Tutto mi appare troppo “pensato” e non riesce mai a convincermi completamente. Per me, va messa nel conto anche l’esperienza viva delle cose toccate, per dir così, conosciute attraverso una loro frequenza tattile prolungata, come quella dell’artigiano esperto che, magari da decenni, intrattiene col proprio armamentario un dialogo segreto, sovente senza parole. Io conosco bene l’incisione, ossia l’arte di tracciare segni “muti”, unità di un lessico altro che è cogente del proprio racconto: ossia, scopre il racconto, i termini del racconto, raccontandolo. Una lingua sempre originaria ed “ineffabile”, ma una lingua. Fondata da me nell’atto di tracciarla su una matrice, il che la ricondurrebbe facilmente nell’alveo dell’essere di cui parlavamo, ma che pure si vale del rame e dell’acciaio per forgiare le proprie trame, la propria narrazione, senza il che questa e quelle non potrebbero esistere. Ora, rame e acciaio sono sillabe di un altro abbiccì? O sono anche loro soltanto doppioni semantici di quell’ente inafferrabile che chiamiamo realtà o materia? L’incisore non ha sempre la sensazione che questi elementi esistano e che è grazie a ciò che fanno esistere anche le immagini create?.
Quello dell’esperienza è un discorso, nel senso indicato da Foucault, chiaro, ma si esercita su alcunché di essente, sia pure di un essere diverso, alieno, sconosciuto al nostro linguaggio. Ergo, non sappiamo cosa sono le cose, però le usiamo e una sorta di conoscenza deve pur passare attraverso un uso sistematico e continuo di alcunché. La materia è toccata, spinta, elaborata: il nostro discorso umano urta tuttavia sempre contro qualcosa che gli resiste e dev’essere, di conseguenza, continuamente ridotto e sottomesso con fatica e attenzione al discorso medesimo. Una specie di muro si oppone senza tregua al volere del nostro linguaggio, un “muro di Babele” in perenne costruzione e mai davvero stabilizzato. Questo “qualcosa invece di nulla” si è piegato alla resurrezione linguistica che gli abbiamo imposto e dove l’abbiamo riprodotto, come su CD, nell’universo parallelo della rappresentazione; ma resta “qualcosa invece di nulla” e il nostro potere verbale resta orbo e muto davanti a questo muro invalicabile.
Il nostro “sistema” produce le cose, è vero, fino a configurare una sfera perfetta e conchiusa in sé di realtà che è invece rappresentazione, per di più storica, di modo che ogni storia ne produce una diversa: la realtà è sempre questa immaginazione della realtà operata linguisticamente negli sprofondi della nostra psiche. E quanto più il sistema progredisce e si auto-perfeziona, tanto più si fa sistema e si sostituisce più integralmente del precedente alla presunta realtà. Perciò Foucault fa un uso così copioso della parola “tassonomia”: la realtà non è che, e sempre di più, il tasso di incidenza dei nomi, sempre più “ordinati” e sistematici, che noi le attribuiamo. Un sistema che, per altro, va per esclusione, in via negativa, centrando obiettivi sempre più esclusivi all’interno delle unità categoriali date. Conciossiaché, però e comunque, il muro delle cose vi si oppone, oggi come ieri, e che tale resta indipendentemente dal fatto che noi le consideriamo identiche ai nomi che le diamo (il Nominalismo), ovvero che le pensiamo soltanto all’interno di una visione linguistica, psicologica, epistemologica, senza realtà. Contro questo muro si spreca l’elucubrazione dei pensatori, me compreso, perché o prima o dopo ci si vedrà giocoforza assoggettati alla sua potenza irriducibile, come gli astronauti davanti al monolite nero di “Odissea nello spazio”.     
Dacché il richiamo fatto da Umberto Eco al tempo, e al quale mi richiamo io stesso, all’uso di un po’ di buonsenso onde non straboccare dal comprensibile e dal ragionevole. A tale proposito un richiamo anche alla lingua usata dallo studioso. Va bene l’intento di scavalcare la faciloneria e di volere la massima precisione, ma il valore primario di una lingua (chi meglio di Foucault dovrebbe saperlo?) è quello di comunicare. Rendersi incomprensibili, anche per motivi virtualmente validi e condivisibili, non è infine né valido né condivisibile. Non accetto di dovere ogni volta fare la traduzione di ogni frase di un libro – anche perché, mi chiedo, com’è che la mia traduzione si capisce e ciò di cui è la traduzione resta invece oscuro e come nascosto? Non si tratta comunque di un nascondiglio arrogante e snobistico, à la maniére del tanto criticato Heidegger?
Da ultimo, e non ultimo, la riflessione verte sul principio di intersoggettività. Se qualcuno, chiunque, esiste solo a condizione che qualcun’altro ne sia testimone, questa testimonianza, che è linguaggio allo stato puro, come rientra nelle categorie della realtà soltanto linguistica con cui abbiamo a che fare? L’esistenza delle cose, pur se messa in questione, resta sullo sfondo dell’ordimento linguistico dell’esistere. Se esistere è linguistico, le cose “non” esistono; le cose, qualche altra cosa, ma non “esistere”. Magari “stanno”, o si espandono come concrezioni di materia alla velocità della luce. Ma esistere no, non possono, perché esistere è relativo solo alla parola e a chi la pronuncia. Ma con l’esistenza di qualcun’altro, di un altro soggetto, come la mettiamo? Non è forse lui, con la sua testimonianza, a comprovare il principio di esistenza, e cioè a dire la mia? Questo essere non è appunto in questa rete comunicativa dell’essere? Non si dovrebbe cambiare “penso dunque sono” con quest’altro: tu pensi dunque io sono? Tutto il linguaggio non si giustifica che per cogliere quest’unico frutto, che è quello della intersoggettività. E se tutto è linguistico e niente vi cade fuori, allora il senso è che il tutto è intersoggettivo e che non esiste altro mondo che quello del rapporto, e di un rapporto sussunto al verbo (il verbo essere) di cui saremmo gli archivi viventi
 

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