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L'architetto

 La Mole Antonelliana, dipinto dell'autore
 

L’aveva visto all’improvviso, gli era apparso davanti attorniato da uno stuolo di collaboratori che lo seguivano discutendo animatamente. I loro sguardi si erano incrociati e attorno a loro era calato il silenzio. Uno del gruppo, un giapponese, facendo un cenno al suo indirizzo, aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio dell’architetto genovese, con il risultato di far fiorire, sul suo viso, un largo e incoraggiante sorriso.

- Ah… dunque è lei l’architetto della “Mole virtuale”! – aveva esclamato rivolgendosi al suo indirizzo; segno evidente che il suo progetto di un edificio luminoso, destinato a prolungare verso l’alto, concludendo così una porzione di spazio aereo, quello preesistente antonelliano, aveva suscitato la sua curiosità.

Maura arrossì leggermente, sperò che quell’ombra di trucco che aveva sul viso fosse sufficiente a mascherare il suo imbarazzo, poi rispose dicendo:

- È solo un’idea, un’ipotesi… - disse svelta sentendosi leggermente a disagio mentre quattordici paia d’occhi si posavano, fissandola, su di lei. Poi proseguì dicendo: - In fondo non ho fatto altro che riprendere l’idea accennata in un carteggio, oggi purtroppo scomparso, dell’architetto Mollino… anche lui aveva in mente di proseguire l’ardita struttura dell'Antonelli, mi pare che parlasse di un dito puntato verso il cielo… - arrossendo, questa volta vistosamente, interruppe la frase e tacque definitivamente. Lui sorrise, un sorriso indulgente, poi concludendo l’incontro, disse:

- Ah, i sogni, se l’uomo non sognasse vivrebbe immerso nelle tenebre, senza distinguere l’oggi dal domani… ci lavori su quel suo progetto, architetto, ci lavori! – detto ciò uscì dallo studio seguito dai suoi colleghi, ormai perso nei suoi iperbolici pensieri.

Lei aveva ripiegato sui suoi passi, era rientrata a Torino, e si era recata nel suo locale-studio situato nei pressi di piazza Carlo Felice. Seduta al tavolo da lavoro aveva puntellato il viso sulle braccia, appoggiando i gomiti tra le carte sparpagliate e le fotografie, gli inchiostri, le penne. Sfilandosi le scarpe, aveva appoggiato i piedi sul freddo cerchio metallico che raccordava lo sgabello su cui era seduta, lasciando scorrere a ruota libera il suo pensiero.

 

Non era forse il più profondo desiderio dell’uomo tendere verso l’alto? Forse sin da quando aveva abbandonato la postura da quadrupede e aveva adottato la statura retta sorreggendosi su quei due arti che gli consentivano di deambulare iniziando a spostarsi, a conoscere luoghi nuovi . Ma per quante vie l’uomo avesse percorso non riusciva però ad elevarsi in verticale: a prendere il volo. Sì, aveva provato, con quei patetici tentativi, a dir il vero, di sollevarsi in punta dei piedi e alzare le braccia, facendole oscillare, ma poi ricadeva pesantemente a terra: con i calcagni ben serrati, mentre alzava lo sguardo al cielo, guardando la luna. Ma un giorno ci sarebbe arrivato lassù, ne era certo! Aveva quindi iniziato a sollevare massi, monoliti piantati sul piatto terreno. Da lì nei secoli successivi, tutta la storia dell’arte, testimonierà con le sue opere questo suo desiderio. Ardite strutture che svettano verso il cielo, lanciate oltre i confini della gravità, altro non sono i segnali che un giorno, qualcuno ha osato sognare. Cattedrali, ponti, grattaceli… e allora, perché non andare oltre la struttura, oltre la materia, proiettare nello spazio anche particelle luminose ricche di valenze architettoniche? Perché non sopraelevare virtualmente la Mole Antonelliana? Perché non lanciare quindi, un fascio di luce di particelle instabili con una traiettoria programmata, atte a formare un disegno nello spazio, un’architettura virtuale? Una luce, lo sciabolio di un faro puntato sull’universo, simile ad un richiamo cosmico.

Poi appoggiando il viso sulle braccia si assopì.

Sussultò, il suono del telefono l’aveva bruscamente risvegliata da quello stato di torpore, dovuto certamente alla stanchezza del viaggio. Guardò l’ora, le diciannove, aveva dunque dormito per una buona mezz’ora. Rispose al telefono e nel farlo si massaggiò il collo indolenzito. Al telefono era Gianni che agitato le disse:

- L’ho trovata!

- Che cosa? – rispose lei ancora assonnata.

- Ma la lettera; per la miseria, la lettera di Mollino!

Eccitata per la notizia, di colpo si ritrovò perfettamente lucida.

- Dove l’hai trovata? – le chiese ansiosa.

- In un vecchio magazzino di un rigattiere; degli amici lo stavano sgombrando, c’era molto materiale riguardante l’architettura, lucidi, progetti, depliant e vecchie lettere. Allora mi hanno telefonato, sono corso subito sul posto, e cercando tra il mucchio di materiale appoggiato in un angolo del muro del cortile, ho trovato la lettera… è sua, ho visto il timbro dello studio!

- Vediamoci lì da te. – disse Gianni agitatissimo.

- Va bene, vieni subito. – rispose lei chiudendo la comunicazione.

Dunque le sue ricerche non erano state vane, la lettera esisteva veramente: il grande architetto aveva sviluppato un suo progetto su quell’ex tempio ebraico. Era curiosa di saperne di più, provava la stessa euforia di quando, parlando con quell’anziano e compito signore, conosciuto casualmente in una libreria, mentre entrambi sfogliavano curiosi e leggermente divertiti, un libro di fotografie polaroid del maestro; lui le aveva detto che da giovane aveva collaborato, sia pur saltuariamente, con Mollino. Eccitata dalla incredibile notizia, si erano ritrovati seduti ad un tavolino di un bar, mentre gustavano un caffè.

Quell’uomo le aveva raccontato di alcuni aspetti insoliti e singolari dell’architetto: le aveva descritto nei particolari alcuni progetti di edifici realizzati in città, mettendo in luce, soluzioni brillanti e geniali, relative sia alla struttura che alla decorazione.

Allora, aveva accennato di questo sogno che l’architetto coltivava in sé, e che con il passare degli anni assumeva sempre di più le caratteristiche di una vera ossessione, e cioè: il voler proseguire naturalmente la “svettante tensione verso l’altro” – Mollino, aveva detto proprio così –, dell’attuale edificio antonelliano.

Aveva messo su carta, sotto forma di appunti quest’ipotesi, descrivendola in una lettera inviata ad un amico, una struttura onirica di cui si erano perse le tracce. Al termine del suo raccontare, quell’uomo, prendendo carta e penna, con la mano un po’ incerta e tremolante, cercando di ricordare esattamente l’idea dell’architetto le aveva tracciato uno schizzo del tutto simile a quello disegnato dal maestro stesso (che lei, felice, aveva messo subito sotto vetro, in una cornice a giorno, appendendolo nel suo studio).

Da quelle linee emergeva una struttura aereo-statica frenata, imbrigliata da funi e canapi, con appesi tessuti specchianti, riflettenti nel loro lento ondeggiare… Simile ad un enorme cordone ombelicale che, rimpicciolendosi man mano nel suo salire, si perdeva alto nel cielo. Una batteria di fotocellule doveva illuminare, di notte, il lento ondeggiare della struttura, simile a quello di una forma femminile, e forse l’idea altro non era che una successiva elaborazione dell’allestimento – tenuto con l’amico Italo Cremona (nell’anno 1935) – dello stand per la società pro-cultura femminile dell’Istituto Fascista di Cultura, intitolato: “L’ora della merenda”. Dove un enorme drappo sospeso, calando dall’alto, descriveva una forma plastica evanescente.

Oppure, l’idea era scaturita a Mollino, osservando la fotografia che aveva scattato l’amico pittore Italo Cremona nel suo studio di via Po negli anni lontani della guerra, dove, tra il drappo alla finestra che rigidamente quadrettata campigliava la sagoma della Mole in quel controluce che rimarcava le silhouette dei vari piani quasi a trasfigurarli in tante quinte teatrali mentre la città si perdeva nella foschia, l’edificio antonelliano sembrava un ago diritto puntato verso il cielo.

Da queste informazioni, e su quest’esile traccia, testimoniata dalla conversazione con quell’uomo, era nata la sua ricerca di un disegno o una lettera che lei sperava poter presentare come documento per suffragare la sua tesi di laurea che i suoi colleghi malignamente definivano di “fantarchitettura”. Mentre il suo compagno di studi, GianGiacomo Tardella, presentava la tesi: “Sull’uso conservativo e museale del gianduiotto: dolcezza e virtù del Regno Sabaudo”, volendo utilizzare l’edificio dell'Antonelli, a tal guisa, come sede di una fondazione permanente.

Lei, aveva cercato allusioni o tracce nascoste di quest’idea, nel saggio: ”Incanto e volontà di Antonelli” scritto dal maestro nel 1941, ma la ricerca le si era rivelata inutilmente vana. Nel frattempo si era laureata, a pieni voti, presentando la tesi: “Della Mole Virtuale” ipotesi di continuità progettuale su un edificio Antonelliano. Dispiaciuta, in cuor suo, di non essere riuscita a trovare nessun documento per convalidare la sua tesi. Ora finalmente i fatti avrebbero parlato chiaro. Ne era certa, e con questo pensiero in testa, rimettendosi le scarpe, si alzò e si avviò verso la porta per far cessare quelle irruente scampanellate.

 

 

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