Il distacco | Prosa e racconti | Rinaldo Ambrosia | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Il distacco

Immobile alla finestra, accarezzava il cielo. Apriva le dita e le faceva oscillare sul vetro come un metronomo. E le nubi sembravano frammenti di carta sparpagliati nel cielo. Sorrideva, al pensiero di poter anche lui volare, leggero come una nube.
Pensava a lei. Lo faceva negli attimi di pausa, dove, per rilassarsi, prendeva coscienza della presenza del corpo. L'incipit era la punta dei piedi. E, risalendo lungo il corpo, la tensione dei muscoli si allentava, lasciando volare via anche i pensieri. Per liberare quel peso ingombrante dalla sua mente, immaginava di dipingere una parete di colore blu.
Blu come i suoi occhi.
E il pensiero tornava a lei. Ai suoi sguardi, ai suoi occhi color fiordaliso. La sua voce, al telefono, risuonava gioiosa, con quell'enfasi che lui aveva ormai riposto in un cassetto.
- Ho finito la stesura della parte riguardante il Mito, ora inizierò quella della Ragione.
- Quando torni?- le sue parole tradivano il forte bisogno di lei.
- Non so. Dovrò consultare ancora alcuni testi, ne avrò per una settimana. Poi Roma, in questo periodo, è uno splendore!
- Mi manchi...
- Anche tu. 
Poi un istante sincrono, privo di suono, una assenza di segnale viaggiava dalla capsula telefonica alla centrale, e da lì sui cavi: un groviglio di sinapsi che univano distanze chilometriche in bassa frequenza, sino all'altra cornetta. E una pausa della durata di un sospiro si inseriva tra loro.
- Ti aspetto, riguardati.
- Ti amo, - rispondeva lei, con la sua voce dal timbro gioioso.
- Anch'io...
Il clic di chiusura della conversazione risuonava nelle sue orecchie come una porta sbattuta con violenza. Chiudeva sempre lei per prima, come se terminare la conversazione fosse un ruolo tacitamente concordato, uno spazio concluso. Ma lei non amava i ruoli, amava la vita, sfogliandola giorno dopo giorno.
L'uomo riprese a lavorare sulla legatura che aveva interrotto. Quella Bibbia armena gli aveva dato filo da torcere. Tre secoli di scempi si erano riversati su quel cuoio e su quelle pagine. Colonie di tarli si erano nutriti, non di parole, ma del legno dei piatti di copertina. Sfogliava le pagine slegate, dove ora aveva ripristinato le varie lacune e ricucito in fascicoli. Guardava i capilettera di quel singolare alfabeto armeno e il sorriso di lei si sovrapponeva a quelle scritte. I suoi occhi brillavano di intensità, uno sguardo puro, profondo, gioioso.

Si era alzato dal tavolo di lavoro, e nello spostarsi, un pennello era rotolato a fianco del barattolo della colla. Alla finestra guardava scorrere, in quel momento di stacco, le nubi nel cielo. L'ombra di una saudade saliva lenta dal cuore. Accese l'impianto stereofonico. Talkin'bout a revolution,  di Tracy Chapman invase la stanza. Run, run, run...

E poi quella luce. Non quella abituale, pareva che il ricordo dell'ultimo viaggio a Lisbona uscisse dalla gabbia del pensiero per sovrapporsi al panorama che osservava alla finestra. E la luce era quella del Portogallo, di quel colore terso e limpido che all'imbrunire si rifugia nelle tonalità dell'ambra, e che solo chi ha vissuto al Sud può immediatamente riconoscere. Una sensazione di pelle, un lento respiro. E lui respirava quella luce.
Ricordava con precisione il loro primo incontro.  A Lisbona, seduto a un tavolino, stava pranzando. Lei si era seduta dinnanzi a lui. E quella economia di spazi aveva generato il loro incontro.
- Are you englisch?
- No. Sono italiano. 
- L'avevo scambiata per un inglese.
- Lo fanno tutti. Ci sono abituato.
- Che ci fa qui?
- Sono venuto a respirare la luce di Pessoa.
- Allora l'ha trovata. - aveva risposto lei, con un gesto circolare della mano, rivolto verso il cielo. Sembrava una carezza nel blu.
E il loro dialogo era iniziato sull'onda di quelle prime battute, per poi continuare nel pomeriggio. La sera li aveva trovati a passeggio nel Barrio Alto, a chiacchierare e  a cenare in una Tascas, tra profumi di cibo e canzoni di Fado. Avevano così smarrito il tempo, affrontando la notte camminando nel flusso emotivo delle loro parole. Il giorno dopo lo avevano trascorso a letto a fare l'amore. A guardarsi negli occhi durante le pause e a fare l'amore. A fare l'amore e a guardarsi negli occhi. Poi, come una nube sospinta dal vento, il ricordo era sfumato.  

Ma la concentrazione gli era sfuggita, i pensieri l'avevano sgretolata. Abbandonò il lavoro e uscì in cerca di un caffè con dehort.
"Quando sarò libero da impegni di lavoro, passerò le mie giornate a scrivere seduto ad un tavolo di un bar."  Aveva carezzato quel pensiero per anni, sino a quando non si era reso conto che, per lui, scrivere, non richiedeva un luogo, ma uno stato d'animo. Ora amava sedersi ad un tavolino e osservare la gente che passeggiava. E il flusso delle persone svuotava lentamente i suoi pensieri.
In quell'istante viveva il momento, l'attimo, in uno stato di assoluta quiete.

All'imbrunire si alzò. Aveva consumato la solita tazza di caffè, un espresso ristretto, forte, dove lo zucchero faticava ad affondare nello strato di crema del caffè. Avrebbe lavorato tutta la notte, doveva terminare il restauro di quel libro che, con i tempi lunghi di asciugatura della colla, era andato ben oltre la data di consegna prevista.
Sorrise. Ancora una settimana e lei sarebbe rientrata, e tutto sarebbe tornato come prima.
 

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