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da "La torre di cristallo" - 6 -

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Novembre 99
Roma
pomeriggio

 
 
Doveva darsi una mossa. Basta correggere compiti. Rimasti solo cinque. Dopo. Stasera tardi. Oppure no, me li porto, così in quei tre quarti d’ora, in quegli eterni tre quarti d’ora, interminabili tre quarti d’ora, in quella penombra, con quella lucina fioca, in quello studio ad aspettare, in quella stanzetta minuscola che non c’è neanche un tavolo, ma non fa niente, me li tengo in mano e correggo, pure se ci vedo poco, pure se mi viene sonno, che mi viene sempre sonno con quella poca luce, in quella poltroncina tutta soffice, che ci affondo, in quei tre quarti d’ora che chi lo sa se servono, se ci otteniamo qualcosa, così me li finisco, e pure questa è fatta, pensava Nora, mentre prendeva il cappotto e la borsa e s’infilava le scarpe, le pantofole lasciate fuori della scarpiera. Metto a posto dopo, che faccio tardi. E si sentiva pure in colpa che non metteva a posto. Scema che sei. E piglia l’ombrello che piove.
Le 16.25, porca miseria e tra cinque minuti esce. E se non mi vede scappa fuori e ci sono tutte le macchine. Tutte le mamme che vanno in macchina a prendere i figli, con la testa nelle nuvole, sempre a correre. Se non mi trova scappa via e va a finire sotto una macchina. Corri!
 
La scuola, meno male che è a quattro salti, che lei va veloce. È abituata ad andare veloce. Da quando c’è questo figlio, da quando c’è questa cosa, accidenti, è tutta una corsa. La vita scivola tra scuola, che non ci sta neanche tanto con la testa, a fare sostegno ai ragazzi, che servirebbe a lei il sostegno, e la casa, tutto da sola, e queste benedette terapie, tre volte a settimana, che ti levano l’aria, ti levano l’anima, che devi attraversare tutta la città, o quasi, su quegli auto pieni, inzeppati di persone con le facce stanche, arrabbiate, annoiate, schifate da questa vita snaturata e snaturante. E oggi piove pure.
Tutta una corsa. Senza medaglie.
Arrivata. Ci sono bambini, fuori. Lui no. Ha smesso di piovere, meno male. Sente i discorsi, La maestra sta male. La maestra supplente c’ha la faccia piena di bolle. Hai mangiato tutto, oggi?
E non sente le risposte. Troppe voci mischiate. Guarda, guarda fra le teste dei piccoli, tra le mamme, le nonne, i nonni e altre testoline piccole, e zaini, e grembiuli squinternati, coi colletti di traverso, e fiocchi sciolti e trecce scompigliate e Giorgio non c’è.
Ecco, vede un suo compagno schizzare fuori, con un foglio in mano verso qualcuno. La mamma. Ecco un altro e due bambine che ridono, ridono. E altri tre che si tengono per mano. E due che si stanno tirando per le maniche e arriva un nonno e li divide. E Giorgio non c’è.
Poi ecco la maestra. Lo tiene per mano. Le va incontro sorridendo. Le sorride sempre. Lei sa. Le maestre sanno. E le sorridono. Pietosamente. Come si sorride ai malati, ai moribondi.
Giorgio tira, vuole liberarsi dalla mano. Quella non molla. Glielo porta e glielo consegna , proprio la manina nella mano. C’è rimasta scottata quella volta che Giorgio è scappato via e lei a corrergli dietro. S’è presa un bello spavento. Nora lo sa. E adesso non lo molla fino a che non lo vede con la mano imprigionata in  quella della mamma. Maestra coscienziosa. Maestra fifona, altro che. Ma tutti hanno paura coi bambini. Oppure no? Pensa Nora. Lei ha paura? Lei sì, ma il suo mica è un bambino normale. Normale.
I bambini normali, dopo la scuola vanno in piscina, vanno a calcio. Vanno a danza. Vanno a giocare dagli amici. Giorgio non ha amici, solo lei. Che poi, amica. Mah!
Come fai ad essere amica di uno che non parla. Che ripete spot pubblicitari o al massimo di dice non la vuole Giorgio la minestrina. Vuole la pasta.
Che già è tanto. Già è un collegamento con il reale. Meglio di prima che neanche questo c’era. Niente. Solo frasi sconclusionate, ripetute mille volte.
Mille volte, e quei mmmh…mmh…mhhh. Che mica sapeva che diceva. Ripeteva e basta. Chissà che c’è nella testa di Giorgio.
Adesso almeno, da quando fa terapia, qualcosa di reale lo dice. Papà è tutto arancione, aveva detto quella prima volta che erano tornati per un pezzo a piedi e s’erano fermati, c’era pure Fabio, s’erano fermati al semaforo che era diventato arancione e nel buio della sera aveva colorato il papà, la mamma, la strada, le idee, i sogni, tutto d’arancione d’un riverbero dolce e morbido come uno sguardo di fate. E Giorgio se n’era accorto. La prima volta che s’accorgeva di qualcosa che gli succedeva vicino. Prima, mai.
Era una conquista. Sicuramente allora andava bene questa terapia.
Dai, corri, amore che facciamo tardi, gli diceva mentre correvano verso casa. Che doveva fare una merendina che sicuro non aveva mangiato quasi niente a scuola e poi via, con l’auto, dalla psicologa. Per guarire. Chissà ancora per quanto tempo. Chissà ancora quanti anni. Chissà se guariva.
Quanto era stanca Nora. Avrebbe dormito per un giorno di fila. Per un mese di fila. Per un anno di fila. Avrebbe dormito sempre per dimenticare che questo figlio che aveva aspettato per nove anni era così. Strampalato. Stranino. Picchiatello.
Matto.
(by poetella)

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