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Ecco, aveva chiuso la porta...

 
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Ecco, aveva chiuso la porta. Stava ancora sorridendo.
Casa in penombra.
Adesso in palestra. Gliel’aveva detto. Che fai ora, aveva chiesto lei, mentre si rivestiva. Vado in palestra. E lei l’aveva guardato sorridendo. Ma non sei stanco? No, aveva risposto.
No. Non era stanco. E andare in palestra gli piaceva.
Sudore, tensione dei muscoli. Forza. Pensare, oppure no. Sollevare pesi. Tenere lontana la morte. Misurarsi.
Ecco. Misurarsi. Lì almeno aveva chiare le sue potenzialità. Le possibilità. Dove poteva arrivare. Il limite da superare. Se ce n’era uno. Ma ce n’era sempre uno. E con lei?
S’era un attimo fermato, lo zaino azzurro appoggiato sul letto e in mano l’accappatoio. Il letto.
Era un disastro. Aveva preso un capello, lungo. Se ne stava sul cuscino a testimonianza. Se l’era tenuto in mano. Un po’. Guardandolo.
 
No. Non voleva pensare a lei, adesso. A prima. Prima era prima. Ora non si pensa. Non si pensa più a lei fino alla prossima possibilità.
Le scarpe da ginnastica. La tuta. Meglio quella leggera. È ancora caldo. Controlla se c’è il flacone del bagno schiuma. Non c’è. Ne va a prendere uno nell’armadietto del bagno. Il bagno è perfetto. Tutta casa è perfetta. La mette sempre in ordine quando viene lei. Pulisce tutto. Anche il lavello d’acciaio. Lo fa brillare. Questione di dignità, aveva detto una volta.
Lei gli aveva risposto che non conosceva nessun uomo dignitoso come lui, passandogli le mani lungo la schiena.
Che non conosceva nessun uomo come lui. Che disperava di conoscere un uomo come lui. Mai più. E gli aveva dato un piccolo morso su una spalla. Nuda.
 
No. Non deve pensare a lei. Lui sa come si fa. Conosce il metodo. Tutto quel desiderare, quel soffrire. Che gli altri pare che ci sguazzino in tutta quella bramosia. Sospiri. Tensione e veglia. Attenzione per tutto il resto assente. Tutto decolorato da un unico interesse, un unico spasmodico desiderio. Lui no. Quando era a un attimo dal raggiungere la soddisfazione, ok, allora ci poteva pensare. Se no, niente.
E chissà quando se ne riparlava, di stare di nuovo insieme.
Ma lui aveva l’interruttore. Spento. Acceso. Spento. Acceso. Ci penso. Non ci penso.
Lei diceva che gliel’aveva insegnato a fare così. Era stato il suo maestro. A forza di dolore e disperazione. A forza di strilli e tagli al cuore. A forza di assenze. Di distacco. E con la straordinaria, intensa presenza, quando c’era. Tutto per lei.
Aveva imparato. E funzionava. Proprio un metodo efficace. Diceva lei.
 
E adesso lui non ci pensava. Pensava di non pensarci, più che altro.
Ché ce l’aveva ancora davanti. Ancora addosso e dentro.
Sei di burro, le aveva detto prima, ricordava. E la vedeva. Bianca e morbida. Tenera. Accogliente.
Sto facendo tardi. Zaino pronto. Il telefono? Non ricordava se avesse riattivato i toni. Probabilmente no. Se no avrebbe sentito il suo messaggio. Glielo mandava sempre, prima, prima che “cambiasse” come diceva lei. Prima che capisse. Trovato il telefono. Riattivati i toni. Niente messaggi. Arriverà. Arriveranno quelle sue frasi. Una delle sue. Ci sa fare con le parole. Le parole l’avevano preso, all’inizio. Prima della sua pelle bianca. Prima degli occhi e di come si sentiva, con lei. Le parole. Quelle che sapeva dire. Come ci giocava. Avrebbe mandato un messaggio, sicuro. A ricordare qualche particolare momento del prima. Uno qualsiasi. Magari uno che lui non ricordava. Ma no.
Li ricordava tutti. Attimo per attimo. Da quando aveva aperto la porta e lei era entrata come la primavera. Come la luce del mattino dopo una notte di febbre.
Sorridente e festosa e l’aveva coperto di baci. Piccole raffiche. Come di bambina.
La finestra non la apro. Quando torno voglio sentire il suo profumo, aveva deciso. Ok, esco.
Il telefono non squillava.
 
(by poetella)

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