Il pasticciaccio di Borgo San Donato - Seconda e ultima Parte | Prosa e racconti | Phantom | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • Gloria Fiorani
  • Antonio Spagnuolo
  • Gianluca Ceccato
  • Mariagrazia
  • Domenico Puleo

Il pasticciaccio di Borgo San Donato - Seconda e ultima Parte

 L’uomo si trascinò a casa. Senza avere bene coscienza di sé, né di quello che aveva fatto.

 

La cena era pronta. Filomena, chiamò la figlia. Sapeva che stava lì intorno e sedette a tavola con gli altri parenti.

La preoccupazione dei Venturin si concentrò su Santo.

L’uomo stava molto male. Aveva la febbre alta e un preoccupante colorito giallognolo. Dopo un conato di vomito, cadde a terra privo di sensi.

Bortolo, il maggiore dei fratelli Venturin, decise che doveva essere portato al più presto all’ospedale di Terracina. Donato corse da Italo Melandri, un meccanico che con una Balilla, all’occorrenza, faceva servizio taxi. Con Filomena, accompagnò Santo all’ospedale.

A casa, Maria era in ambasce per Betta. Sembrava svanita nel nulla.

Dopo ore di inutili ricerche, decise di rivolgersi ai carabinieri.

Nel frattempo Santo era entrato in ospedale.

Il medico del pronto soccorso che lo visitò ebbe il sospetto che si trattasse di avvelenamento. Da funghi. Chiese conferma. E Filomena la dette: sì, aveva proprio mangiato funghi.

Il medico cancellò la speranza: l’uomo era in fin di vita. A Filomena soltanto fu consentito di rimanergli accanto.

Durante la notte la lucidità di Santo andò e venne. Ad intermittenza. Come la luce di un faro.

Prima di perderlo per sempre, Filomena avvertì il desiderio di liberare l’anima dal peso che l’opprimeva.

- Anche se non eri l’uomo per me… - gli sussurrò. - …ti ho amato… perdonami per il male che…

Si arrestò dal parlare perché Santo aveva perso conoscenza.

Quando la riprese, bruciava come una torcia.

Dalla sua bocca uscirono parole senza senso. Così parve a Filomena.

- Ho ucciso quella povera bambina con una pietra… - si accusò con voce appena percettibile.

Filomena non capì. Non poteva. Almeno in quel momento.

Provò a chiedere spiegazioni, ma lui entrò in coma.

Allo spuntare del giorno Santo morì.

In quello stesso istante una donna vide Betta dentro alla pozza e lanciò l’allarme. Il corpo della bimba fu sottratto alle acque da gente straziata.

In poco tempo la notizia di quella morte fece il giro del Borgo e di Sabaudia intera.

Nel momento in cui avviò le sue indagini sulla morte di Betta e Santo, l’unica certezza cui arrivò il capitano dei carabinieri Pietro Annarumma - comandante della stazione dei Carabinieri di Sabaudia -  fu che a cogliere i funghi mangiati dai Venturin era stato Giovanni Bacchetto.

Quella sera stessa l’uomo fu messo in stato di fermo.

 

Nel giorno dei funerali di Betta e Santo, fra i presenti, c’era anche Annarumma.

I comportamenti di chi presenzia a un funerale sono sempre significativi. Il capitano lo sapeva bene. Così al suo occhio attento non sfuggì il turbamento del Dalla Rovere.

Il particolare meritava un approfondimento. Parlare col gerarca fu la prima delle sue incombenze.

- Cosa vi lega ai Venturin? - gli chiese quando se lo trovò di fronte, in caserma.

Il Dalla Rovere, contro ogni aspettativa, non si fece pregare per rispondere.

- Ho avuto una relazione con la moglie di Santo Venturin. Betta era mia figlia. - ammise.

Il capitano stentò a credergli. Com’era possibile - si interrogò - che un uomo del suo calibro si fosse confuso con una contadinella?

Il gerarca andò avanti. A ruota libera.

- Santo Venturin, dopo che venne a conoscenza del legame fra me e sua moglie, manifestò l’intenzione di andare dal podestà di Terracina… addirittura dal Duce, se non avesse trovato soddisfazione… dovevo evitare lo scandalo… a tutti i costi…

- Sarebbe scoppiato comunque… - sottolineò il capitano.

- Se Betta non fosse morta, tutto ora sarebbe diverso. - puntualizzò il gerarca.

- Chi ha avvelenato il Venturin? - domandò secco Annarumma.

- Io ho dato alla Santuz il fungo che l’ha ucciso… un’amanita falloide… io ho l’ho spinta all’omicidio… con un ricatto…

 

Il capitano rimase in silenzio. Il pasticcio combinato dal gerarca era ancora più grosso di quanto fosse lecito immaginare.

- Sapete cosa accadrà ora? - domandò.

- Poco mi importa ormai…

Annarumma si dibatteva nello sconcerto.

- Ho una supplica da farvi… – disse il Dalla Rovere con voce flebile.

- Dite pure.

- Chiedo l’onore delle armi.

Annarumma ebbe un attimo di incertezza. Uno solo.

Si convinse presto che un regime più che di colpevoli pentiti ha bisogno di eroi.

- Sia! - sillabò con emozione.

- Indicatemi, per cortesia, la strada del gabinetto…

- Piantone!

Un carabiniere arrivò.

- Comandi, signor capitano!

- Il signor Dalla Rovere ha un’urgenza...

 

Il gerarca e il carabiniere s’avviarono lungo uno stretto corridoio che andava a morire contro una vetrata.

Era una soleggiata e limpida mattina di fine marzo.

Dalla Rovere intravide il profilo dei monti Ausoni. Sospirò.

Entrò nel gabinetto e aprì la finestra per salutare il mondo.

Con lo sguardo abbracciò, fin dove poteva, la fascia costiera del Tirreno. Era ancora più bella di quella che stava impressa sulla pellicola del ricordo.

Dalla tasca della giacca estrasse l’arma che avrebbe salvato il suo onore, una Beretta 7.65.

La puntò alla tempia e, ad occhi chiusi, premette il grilletto.

Alcuni schizzi di sangue macchiarono per sempre le mattonelle della parete.

 

Qualche giorno dopo, la Santuz fu portata in caserma.

- La dichiaro in arresto per l’omicidio di suo marito. - le intimò uno stralunato Annarumma.

Filomena annuì. Sapeva qual era il suo destino.

Seguì un lungo interrogatorio. Al termine, Annarumma le rivolse una preghiera.

- Mi aiuti adesso a trovare due risposte… le sole che mi servono per arrivare alla completa ricostruzione dei fatti.

- Chiedete pure.

- Chi è il padre di Betta?                             

- Santo Venturin… mio marito.

Il capitano si sorprese. La risposta che aspettava era un’altra.

- Il Dalla Rovere - obiettò. -  ha affermato di esserne lui il padre.

- Gliel’ho fatto credere io…  perché era l’unico modo che avevo per tenerlo in pugno...

Nessuno avrebbe mai potuto farlo con il Dalla Rovere, pensò Annarumma scuotendo la testa.

- Almeno così credevo… - si corresse la donna. - Soltanto lui poteva dare a mia figlia quello che né io, né Santo saremmo mai riusciti a darle… una vita migliore, intendo... non volevo che Betta vivesse una vita disgraziata come la nostra… noi Venturin per sopravvivere abbiamo dovuto sfidare la malaria…

- Perché ha ucciso suo marito?

Filomena avanzò di un altro passo sulla strada della sofferenza.

- Dovevo farlo… il Dalla Rovere aveva minacciato di toglierci il podere… saremmo stati tutti ricacciati alla miseria della nostra terra…. meglio perdere un Venturin, mi sono detta, che la famiglia intera… - concluse con un filo di voce.

Il capitano annuì. Giudicare non era il suo mestiere.

- Si può sbagliare anche per troppo amore. – si limitò ad annotare.

Guardò oltre la finestra. La luce del giorno in declino spargeva tutt’intorno soffocante malinconia. Un arcobaleno a cavalcioni della Cima del Nibbio incoraggiò la speranza. Sospirò.

- Il suo cuore è limpido… i giudici avranno clemenza… - affermò alzandosi dalla sedia.

Filomena scosse la testa.

- Lo spero. – rispose.

- Addio, signora Venturin.

- Addio… capitano Annarumma.

Si strinsero la mano.

- Piantone!

Un carabiniere arrivò.

 

Filomena ebbe voglia di piangere, ma non trovò lacrime.

 

 

                                                                       FINE

 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 0 utenti e 4851 visitatori collegati.