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Incubo

La fine dell'umanità arrivò così.
Scesero dal cielo milioni di palloncini colorati, iridescenti sotto la luce del sole. Guardavamo tutti a testa in su, esterrefatti ed estasiati dalla bellezza. Pensammo quasi tutti ad una trovata pubblicitaria e ci precipitammo fuori per impossessarcene. Quando le autorità emanarono l'allarme, invitando tutti a consegnare i palloncini all'esercito che ormai pattugliava le strade, era troppo tardi.
Molti li avevano portati a casa e quando le uova si schiudevano - perché di uova si trattava - non c'era più niente da fare. Dal guscio uscivano centinaia di piccolissimi animaletti che poi, crescendo, diventavano delle orrende bestie nere, feroci, tutte denti ed unghie, che sembravano immortali. Se ne colpivi uno, la parte ferita ricresceva. Se riuscivi a tagliarlo a metà, te ne ritrovavi due. Se lo bruciavi, dalle ceneri ne rinascevano migliaia. L'unica cosa è che erano stupidi: si facevano rinchiudere facilmente. Ma erano talmente tanti che non c'era nessun posto dove tenerli, per cui, praticamente in ogni casa sulla faccia della terra, c'era una stanza dalla porta serrata piena di queste bestie. Centinaia di esseri, che riempivano quello che avrebbe dovuto essere il proprio rifugio, di ringhi, latrati, ululati.
Ma questo non era il peggio, il peggio arrivava se provavi ad ucciderli dentro le uova. Se rompevi il guscio prima che questo avvenisse naturalmente, si spargeva una sorta di peste. La chiamo così perché non so come chiamarla. In realtà era una peste morale, camussiana. Chi ne era colpito, piano piano si straniava dalla realtà, perdeva qualsiasi interesse e dopo un decorso che variava da persona a persona - potevano essere pochi minuti o un paio di mesi - si sedeva a terra, ovunque si trovasse, con la testa fra le ginocchia, e si lasciava morire così, semplicemente.
Le strade, gli spazi aperti, i boschi, erano piene di questi cadaveri in fieri. Ogni tanto ti sgomentava riconoscere qualcuno, oppure vedere scene strazianti di madri che cercavano di scuotere i figli. Le bestie nere scorazzavano, facendo scempio di quelli che erano già morti.
Cercammo in ogni modo di reagire, provammo ogni metodo che la creatività umana riuscì ad escogitare, anche quelli che ci sembravano più insensati. Usammo armi a uranio impoverito, fosforo, gas nervini, armi batteriologiche e quant'altro. Dispiegammo tutto il nostro arsenale dell'orrore. Niente. Alcuni provarono a cercare di comunicare con le bestie, ma senza nessun successo. I virologi si misero a lavorare ad un vaccino per la peste.
Ecco, quello accucciato lì, nel mio salotto, è uno di loro. Solo ieri mi diceva: "Ce la faremo, vedrai, ce la faremo". Stavamo passeggiando per una Roma inverosimilmente cupa e triste. Ci siamo affacciati da ponte Sisto, per cercare di ritrovarne un po' dello splendore, ma poi abbiamo visto galleggiare nel fiume migliaia di morti, persone che non ce l'avevano fatta più ad aspettare che fosse la peste a finirli.
Tra queste una ragazza, avrà avuto una ventina di anni, era adagiata nell'acqua verde, sembrava il quadro di Millais su Ofelia.
Corremmo a casa piangendo. E dentro casa, la torma di bestie urlanti. Gli ho dato i tappi per le orecchie, perché non impazzisse. Ma la mattina capii non ce ne sarebbe stato bisogno. La peste lo aveva raggiunto. Non sentiva più nulla, neanche l'orrore.
Io sono tra i pochi ancora sani, se così si può dire. Troppo pochi. Credo sia ormai impossibile pensare che l'umanità possa rinascere. E non mi illudo, presto la peste colpirà anche me.
Ecco, questo è il resoconto degli eventi. Non so perché sto scrivendo queste righe. Nessuno le leggerà mai. E mai questa espressione è stata più giustificata.
 

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