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Io c'ero

Sai chi c’era quel giorno? Ebbene, te lo voglio proprio dire. C’ero io. Si, proprio io, quel giorno che il sole picchiava duro e il vento... benedetto signore, che vento quel giorno! Sensazioni di giorni che faranno epoca… Il vento di Genova poi... è un vento che noi conosciamo, eppure ci prende ogni giorno alla sprovvista. Che piova o non piova, da sempre noi, siamo abituati a quel vento. E ogni giorno dal vento ci lasciamo sorprendere... noi genovesi. Ah, e quel giorno eravamo molti e non soltanto genovesi, anzi viene da dire: tanti... troppi. Il corteo si staccava per chilometri e chilometri. Pensa, si parla di qualcosa di chilometri e chilometri. Ottocentomila persone ammucchiate a camminare. Ottocentomila facce sudate. C’era aria di festa lì in mezzo ai nostri passi. Trovavamo che fosse un modo di rispondere. E dunque si rispondeva e si urlava in tutte le lingue, urlavamo per le cose essenziali, vitali per il mondo (e non dimenticarti mai amico mio, che il mondo siamo noi), ed infatti eravamo noi e io c’ero caro amico mio. Peccato che non c’eri anche tu. Saremmo stati insieme senza saperlo e adesso lo saremmo sapendolo.
Il corteo si muoveva lento e molto spesso non si muoveva neanche. I bambini sulle spalle dei papà, le mamme attente a cosa pioveva dal cielo. Da tutta Europa e dal mondo (ma ti rendi conto?) un appuntamento naturale, come innaturale invece sarebbe stato l’andamento delle cose. E adesso che ci penso, forse quel vento eravamo proprio noi sotto quel sole che ci teneva caldo. E sotto quel sole ci sentivamo al sicuro.
Ricordo la città. Era divisa in tre. Da Levante si poteva arrivare, ma non da Ponente, (per via dell’aeroporto e da Bolzaneto per via della caserma della polizia), ma come un muro, si poteva scavalcare dai monti.
Tu non conosci Genova, avremmo scavalcato insieme se ci fossimo conosciuti allora, ed il corteo era una grande festa di bandiere colorate. Eravamo convinti che non sarebbe successo nulla (e si sappia che l’ala dura è sempre stata lontana dal cuore di quel corteo).
Bene amico mio, al pomeriggio del giorno prima c’erano già stati i primi scontri, gestibili se vogliamo. Ma il sentore c’era. Si sapeva già come si muovevano, già si sapeva come si sarebbero mossi, ma forse qualcuno doveva, o forse qualcuno voleva, che le cose avessero un diverso andamento.
Ricordo Corso Buenos Aires al pomeriggio del giorno prima e subito la mattina dopo, l’adrenalina era alta, fin sopra i capelli; ricordo quel giorno e il vento tirava forte da tutte le parti come uno spintone, ricordo che quella mattina per arrivare in centro si camminava sui monti sopra Genova. Chi conosceva la strada faceva strada e si arrivava in città.
Ci si domandava come e quanti saremmo stati, dove erano gli altri, in che maniera ci avrebbero accolto. Eravamo in tanti che mai avevo visto una tale moltitudine di persone, in vita mia. Tutti lì per la stessa cosa, controvento, contro il potere dei pochi. Si parlava di coscienza, di debito dei paesi poveri, di pace. Ma tu non puoi sapere perché non c’eri amico mio e non puoi che immaginare e per tanto che tu possa immaginare non ce la potresti fare mai. Eppure quando si era lì si sorrideva, e si sentiva che potevamo fare qualcosa. Noi l’abbiamo creduto, e non eravamo stupidi e non lo siamo adesso, e ancora ci crediamo e ancora ci crederemo. E il vento tirava raffiche che ci tenevano insieme.
La nostra città era divisa in zone. Il centro, la zona rossa, dovevi vedere che tristezza per me che sono genovese (e lo sono nel sangue, tra le arterie, nelle vene, dal cuore verso il pancreas… verso il fegato, ecco si, il fegato); pensa, vedere Via Venti che tu non conosci perché non ci sei mai stato a Genova - Via Venti bloccata da container impilati uno sull’altro e le transenne davanti. Quei cancelli che chiudevano l’accesso prima ancora di arrivarci ai container e la nostra Genova era blindata.
E poi non puoi sapere la storia dei pass per entrare nella zona rossa e nel centro storico, tutto questo iniziato già un mese prima. Noi, che siamo di Genova, carpivamo la tensione. Era come il mare che prepara la tempesta giorno per giorno e ogni giorno ti avverte. Tu non sai i proclami via etere e media e di bocca in bocca, come a dire ai genovesi tutti, di andare via per quei giorni perché la nostra città sarebbe stata fatta a pezzi. Una piazza di guerra. Ma tu questo non puoi saperlo, tu purtroppo non c’eri. E il vento ti avvolgeva per le strade, un vento contrario che dovunque tu camminassi ti spingeva come per farti tornare indietro.
Amico mio tu non sai cosa si sentiva la sera prima della domenica, stando fuori dalla zona Fiera, dove le istituzioni avevano i loro uomini chiusi dentro i padiglioni. Loro lì avevano il quartier generale, ci dormivano (tu non lo puoi sapere perché non c’eri) lì di notte sentivamo cantare le canzoni «chi non salta comunista è» (canzoni da stadio... da osteria). Questo non lo puoi sapere perché non c’eri, ma chi abita lì nei dintorni sentiva e si stupiva, e scriveva al Secolo XIX l'indignazione, eppure non cambiava nulla. Si racconta anche che le bandiere sequestrate venissero bruciate durante queste danze tribali. E chi ha visto e raccontato non erano ragazzi, erano le persone del quartiere della Foce.
Questo accadeva nei giorni prima della «grande giornata» di cui tutti parlavano ma che noi abbiamo vissuto come un grande giorno lungo 5 giorni prima, lungo una settimana e un mese prima e altri mesi ancora… e dopo e ancora oggi io te ne parlo, come vedi.
Tutti gli ospiti di questo grande giorno si radunavano da amici o parenti oppure in una grande area costruita in un campo di atletica con velodromo annesso, il Carlini e anche lì controlli su controlli, proibizioni, attenzioni portate ad esasperare gli animi. Ma tu non puoi saperlo, tu amico mio non eri qui e non puoi capire, o soltanto non vuoi.
Ma noi si, noi genovesi che assistevamo tutti i giorni al gioco del «questo si, questo no», vedevamo e vedevamo fin troppo.
E il vento tirava sempre più forte per quella domenica, al sabato i black block sapevamo tutti dove fossero e tutti quelli che dovevano sapere, facevano finta di non sapere. Anche questo noi lo sapevamo. Perché noi eravamo lì. Ricordo che il corteo scorreva in una grande via lunga qualche chilometro, Corso Italia, che affianca il mare. In fondo alla via una grande curva che porta verso il centro, la «famosa» zona rossa, entrando prima nella zona gialla. La nostra città in quei giorni era di semicerchi colorati. Noi che siamo sempre stati liberi di camminare come si vuole e per dove si vuole, eravamo relegati a muoverci tra zolle colorate e istituzioni armate, tese e ribollenti. Di cosa tu dirai? Non si sa.
Camminavamo in corteo accompagnati da un tam tam di manganelli sugli scudi, credo che basti. Tu hai mai sentito quel rumore? Forse si, non lo so, io l'ho sentito. E’ un rumore primordiale. E’ rumore fatto per intimorire (loro pensavano) ma in realtà fa crescere in te un istinto alla ribellione che tu non puoi capire, perché tu, amico mio, non lo hai sentito quel rumore, non lo hai sentito mai e quindi non lo puoi capire e scusami se non sono capace di spiegartelo.
Poi dalla curva per la zona rossa si entrava in un imbuto di una via molto stretta: tu immagina amico mio un imbuto nel quale vengono mandate masse di persone (parlo di 800.000), con tutte le strade intorno bloccate. Ti sembra di entrare in una zona da imboscata, dove ti rendi conto che non hai più il mare alla tua sinistra, quel mare che ti da la libertà di guardare un orizzonte magari difficile da raggiungere, ma che vedi laggiù, dove si incurva insieme alla terra per la quale stai camminando così deciso, per quelle strade così affollate, così urlanti, così cosmopolite…
Ma mi stai capendo amico mio? Forse no. Ma tu non c’eri e non puoi capire. Forse per tanto che io mi scervelli a trovare le parole giuste per raccontarti, non ci sto riuscendo. Da quell’ala di corteo dove la curva era obbligata e dove l’imbuto tendeva a stringere, qualcuno vuole invece andare avanti diritto e tenere il mare ancora alla propria sinistra per qualche centinaio di metri, per poi entrare in una larga via (simile a quella da cui si proviene), che si chiama Viale Delle Brigate Partigiane, dove più giusto sarebbe lo snodarsi del corteo. Una strada più ampia per un corteo così grande contro le ingiustizie del mondo. Sì, contro le ingiustizie del mondo, (mi domando se basti una strada più larga…contro le ingiustizie del mondo, cristo!!). Sì perché, amico mio, si sta parlando delle ingiustizie del mondo e non di altro e non te le voglio elencare. Si parla di bambini che non mangiano o mangiano sì e no tre volte alla settimana, o di mutazioni genetiche o ancora di quella scatoletta che tu apri tutti i giorni e non sai neppure se quello che sta scritto sull'etichetta corrisponde a quello che stai per ingoiare - ma tu le conosci già queste cose, vero? Perché le vedi tutti i giorni, come anche io le vedo.
Beh, dicevo che quel giorno il vento tirava forte e il picchiare dei manganelli sugli scudi rimbombava e il vento lo portava lontano, tanto lontano che non si sa come ti entrava diritto nei padiglioni auricolari. I primi scontri sono violenti e in fondo, in fondo, le istituzioni non volevano altro. Raccoglievano quello che avevano seminato da giorni, tutto in un battibaleno, nessuno si aspettava una tale azione. Tu immagina, amico mio, che improvvisamente la zona calda dello scontro si svolga al gomito, l’ingresso all’imbuto, tra pochi esagitati da una parte e dall’altra i rambo delle istituzioni, vestiti da antiguerriglia falangista. L’incredibile sta nel fatto che invece di farsi le ragioni sugli scalmanati del fronte del «gomito», gli uomini istituzionali si scatenano nella retrovia del gomito stesso, contro persone inermi che non sapevano neppure cosa stava succedendo davanti. Viene colpita la «pancia del corteo», come si dice in gergo, perché il corteo era grande e quindi vulnerabile (anche perché non essendo un corteo politico ma un corteo di movimento, mancavano le strutture di servizio d’ordine che sarebbero, comunque sia, intervenute per arginare gli esagitati, ma purtroppo non c’erano).
Dicevo, un corteo troppo grande per come io possa mai raccontarti, si perdeva alla vista guardandolo dall’alto.  Amico mio tu sai che mentre il vento tirava dal mare verso la nostra città, chi picchiava di più erano proprio loro? Quelli che dovevano difenderci. Tu sai che usavano i manganelli al contrario? Tu sai che picchiavano cinque contro uno? E tu sai che picchiavano su tutti? Tu sai che la gente scappava non sapendo dove andare? Tu sai che i bambini piangevano? Tu sai che gli uomini difendevano le proprie donne e i bambini parandosi davanti a loro o coprendo le loro teste con il corpo? Tu sai che in quella via ci sono delle aiuole spartitraffico con delle basse palme che venivano spezzate per costruirsi degli oggetti per la difesa? Tu sai che c’era sangue da tutte le parti? Vedi quale è la differenza tra il tuo parlare e il mio? È che tu non lo sai perché non lo puoi sapere, perché tu non c’eri eppure, parli, e parli sempre a vanvera...
Ma perdonami, voglio continuare a domandarti ancora qualcosa. Tu sai che si portavano le persone nei pronto soccorso degli ospedali e le istituzioni entravano di forza per prendere i feriti neppure medicati per portarli via? E tu sai che medici e infermieri si sono trovati a spintonarsi perché quelli erano li con la violenza? Tu sai che molti hanno difeso sconosciuti picchiati selvaggiamente da quelli dai quali non ti saresti aspettato mai, nella nostra fatidica Italia democratica?
Ma forse il vento tirava forte, ma non troppo forte, per farti arrivare quei rumori secchi degli scontri, agli urli tribali dei poliziotti e poi d'altronde tu non c’eri e non puoi sapere cosa era la nostra città in quei giorni.
Nel frattempo quei black block si erano trasferiti in un’altra zona della città, quella che porta verso lo stadio, e passavano distruggevano vetrine, capovolgevano automobili e tutto quello che trovavano e sai dove erano quelle istituzioni così violente contro gli inermi? Bene te lo dico io dov’erano: una parte continuava a manganellare, a gruppi di 5 contro uno, il solito corteo; il resto si teneva a debita distanza dai pericolosi, gli faceva sfasciare la città e non interveniva, (lì, dove forse non sarebbe riuscita a sfogare la sua stupita sete individuale, perché di questo si è trattato).
Sai il vento tirava forte, ma ancora oggi tira lo stesso vento in questa città per noi abituati a pelli di tutti i colori e razze di tutti i tipi. Prova a salire su un nostro autobus un giorno qualunque, senti parlare tutte le lingue del mondo, sai quel vento noi lo respiriamo tutti i giorni a pieni polmoni ma tu forse non puoi capire, perché tu non vivi qui, caro amico mio. Forse tu non sai neppure cosa è successo alla Diaz, dove sono entrati con la forza laddove non c’era bisogno. Dove sono stati portati borsoni di spranghe per poi dire che erano già li dentro, dove sono stati distrutti i computer strappando e portando via gli hard disk, dove sono stati picchiati a sangue tutti indistintamente (eppure avevano le mani alzate) e le chiazze di sangue contro i muri erano evidenti nelle foto di quei giorni, ragazzi che non avevano nulla a che fare con le violenze delle tute nere, ma anche qui tu non c’eri e non puoi sapere.
Sapessi come mi dispiace che tu non c’eri, magari adesso parleresti in un altro modo di quello che è accaduto e che tu non hai visto per poterne parlare.
Sai, il vento tirava anche a Bolzaneto, nella caserma delle retate senza senso, dove le persone, si dice, venissero lasciate senza il diritto di una difesa onesta e libera, dove venivano fatti inginocchiare e lasciati li per ore intere, oppure fatti spogliare con l’intento di offendere la dignità di un essere umano; tu non puoi sapere, perché era un vento impazzito che aveva schiaffeggiato i cervelli del nonsense. Come posso infatti spiegarti un clima da Cile di Pinochet per te che non ci sei stato?
E ancora come posso spiegarti di un morto stupido, per mano di un altro stupido? Non pensi che abbia pagato troppo caro, il fatto di essere uno stupido? Perché se ogni stupido avesse il diritto di uccidere un altro stupido il mondo sarebbe completamente vuoto e i furbi si conoscerebbero tutti per nome.
E dello stesso stupido che viene difeso inventandosi le cose più incredibili del mondo, cosa ne dici? Tipo, una pallottola sparata per aria che rimbalza sulla grondaia del palazzo di fronte e poi si conficca nella parte frontale dello stupido numero uno. Dico io come si può difendere lo stupido numero due, che non era all’altezza di coprire il ruolo che copriva?
Ma anche lui paga e pagherà come pagheranno tutti attraverso la giustizia. Come dovrà pagare anche quell'ispettore che in borghese, invece di sedare gli animi dei suoi, prende a calci un ragazzino che poteva essere suo figlio con una rabbia che non giustifica il momento ed il ruolo che copriva.
Ma questo amico mio lo avrai visto dai processi che ci sono stati dove non è stata data giustizia a chi è stato vituperato, offeso, svilito, distrutto, malmenato, violentato, violato nel suo intimo da quelli che avrebbero dovuto al contrario difenderli, gli anni sono passati ma la rabbia per quei giorni e per chi l’ha vissuta non passeranno mai.
Eppure a Genova lo stesso vento di sempre mi spinge quando cammino per strada e anche adesso mi sostiene (anche se lontano) mentre scrivo questa, per te, ma che a volte per poter parlare, amico mio, bisogna aver camminato sulle strade delle cose che si dicono ed essere stati avvolti da quel vento che noi genovesi conosciamo e che viviamo da sempre.
Dal ‘45 durante la Liberazione e degli anni prima per costruirla, dal Giugno del «Sessanta» contro il governo Tambroni, nel «Settanta» con la scoperta delle celle di tortura naziste della Casa dello studente di Corso Gastaldi, sino ad arrivare ai giorni di cui ti ho lungamente parlato.
E perdonami amico mio se mi sono permesso di parlarti in questo modo, quasi con rabbia, so che non ho nulla da insegnare a nessuno, anche se noi abbiamo il vento che dal mare ogni giorno ci accarezza o ci spinge gli odori di terre e di storia che la nostra città, Repubblica Marinara un tempo, da sempre porto di mare e oggi cosmopolita più che mai, ci rende liberi e ci fa respirare a pieni polmoni la consapevolezza della nostra storia.
Scusami amico mio infine per questo ammasso di parole scritte di getto, ma volevo risponderti, e lungamente l’ho fatto. Non volermene per questo. Amici come prima, sempre insieme su questo cammino che è… la nostra breve vita.

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