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L'ultimo eremita - parte prima

Montepiano sorge sulla cima di un dolce monticello a circa settecentocinquanta metri di altitudine. Prospiciente il paese, verso nord, vi è un altro monte che supera i mille metri chiamato semplicemente la Montagna. Fino all’altezza di ottocento metri questo monte sembra la fotocopia di quello di Montepiano, con un dolce declivio ricoperto da uliveti, orticelli e casette rurali di ogni tipo e dimensioni. Dagli ottocento metri in su la natura cambia repentinamente con pareti rocciose e scoscese ricoperte da scarsa vegetazione, qualche arbusto, qualche ginestra e molti rovi, fino a raggiungere appunto la cima a oltre mille metri. La parete opposta, quella nascosta al paese e rivolta verso nord è invece meno erta e terrazzata su diversi strati.
 
Quasi in cima alla Montagna si trova una grotta grande una cinquantina di metri quadri, ottima per il ricovero di pastori e armenti tanto che da sempre una mano intelligente ha eretto sull’entrata una parete in muratura a secco lasciandovi appena uno striminzito vano di accesso.
La leggenda narra che intorno al millecentocinquanta un cavaliere normanno di nome Guittone, di ritorno dalla Terra Santa, con un fardello di colpe sulla coscienza, vi abbia trovato oltre l’aria salubre anche una pace interiore per trascorrere il resto della vita in odore di santità, o quanto meno in quella della saggezza. Amato e considerato dalla popolazione del vicino villaggio, oggi Montepiano appunto, sia stato da sempre considerato santo sebbene non vi sia in alcun calendario un santo di questo nome e nemmeno un beato, per la verità. Ma l’amore del popolo ha fatto sì che venisse nei secoli ritenuto tale e quindi oggetto di devozione.
La grotta, o la dimora dell’eremita, per secoli è rimasta intatta causa un totale abbandono tanto che fino a mezzo secolo fa nessuno ne avesse memoria e la stessa era addirittura nascosta da un fitto roveto. Quando negli anni settanta esplose la moda, con l’avvento delle Pro-loco, di arricchire la stora dei paesi con riferimenti storici e leggendari, qualcuno si ricordò della grotta e della leggenda dell’eremita e nel volgere di una stagione la grotta venne ripulita e indicata ai curiosi da tabelle stradali azzurre con tanto freccia bianca che, dalla statale in su accompagnavano il curioso, finto devoto, fino al limitare della parete rocciosa. Da qui in poi, lasciato ogni automezzo, si procede a piedi per un contorto sentiero che per alcuni tratti ricorda quello del film sull’ultimo mohicano, ovvero uno strapiombo da far paura. Superato questo tratto ci si trova improvvisamente a sbucare sul lato corto di un modesto terrazzamento antistante proprio la grotta.
Un altro exploi dovuto all’interesse della Pro-Loco furono le costruzioni di una miriade di casette rurali grandi appena una trentina di metri quadri, costruite con l’intento di offrire un riparo ai tanti piccoli viticoltori proprietari di modesti appezzamenti e a qualche piccolo maggiorente del paese per fare sfoggio di una villetta dove passare i fine settimana a far bisboccia tra fiumi di vino e abbondanti libagioni. In una di queste villette, quella posta più in alto, ai piedi della parete rocciosa, è sorta sul finire degli anni settanta l’emittente locale SuperMonteRadio che, oltre ad offrire musica non stop con contorno di stupide dediche anche un adeguato parcheggio per le auto di tutti i bramosi arrampicatori con meta finale la grotta.
Alle ultime elezioni comunali, esortato da più d’uno a dedicarmi alla politica, mi sono lasciato candidare in una lista civica che poi è risultata vincente, sebbene il mio apporto sia stato scarso, appena trentotto voti sufficienti per risultare l’ultimo degli eletti. In virtù, poi, del mio titolo di studio, professore in pensione di Storia e Geografia, ho ricevuto l’alto onore di avere dal sindaco una pomposa delega ai beni culturali. In pratica il mio compito riguarda, in collaborazione con l’altro delegato alle attività turistiche nonché responsabile della Pro-Loco, il mantenimento in stato di salute di una mezza dozzina di chiesette e cappelle nell’abitato, un’altra dozzina sparse nel territorio comunale, la manutenzione di squarci di antiche rovine e palazzi storici, o meglio ciò che ne è rimasto dallo sfacelo urbanistico. Esempio massimo è il palazzo Consalvo-DeBellis che presenta delle pareti intonacate e porte a garage sulle stradine laterali. Il fiore all’occhiello, si fa per dire, altro non è che la grotta dell’eremita o, per meglio dire di san Guittone l’eremita.
Proprio in virtù delle mie mansioni avvenne una mattina di fine novembre scorso che ricevetti la segnalazione di un fumo grigio apparentemente proveniente proprio dalla grotta. Il fumo, per essere sinceri si vedeva benissimo anche dal paese, in fin dei conti la grotta dista dall’abitato circa sette o otto chilometri in tutto ma per arrivarci ci vuole più di mezz’ora, cinque minuti fino al parcheggio davanti la Radio e il resto a piedi. Dall’altra parte il tragitto è molto più agevole ma oltre a dover chiedere il passaggio al barone Pizzuto per l’attraversamento delle sue terre bisogna sobbarcarsi almeno una trentina di chilometri di strada e, comunque, procedere a piedi negli ultimi cento metri, ma la salita è piuttosto agevole. Ciò che scoccia maggiormente è il fatto di dover sottostare a un puntiglioso interrogatorio da parte del barone Pizzuto inerente il perché, il percome, il perquando che fa cascare le braccia. Costui, in fondo un un buon diavolo, è barone come Guittone è santo ovverosia è un titolo che si è autoimposto, potenza dei quattrini, per il fatto di essere il proprietario di tutta la mezza montagna non visibile dal paese, in tutto milleduecento ettari tra bosco, uliveto, frutteti vari, seminativi e diversi fabbricati rurali tra stalle, granai e reggia rurale personale. Per farla breve a nessuno piace l’idea di dover chiedere il permesso a Pizzuto perché altrimenti il tempo si decuplica, non rimane quindi che la scarpinata sul sentiero indiano.
A seguito della segnalazione allertai il comando dei vigili urbani ma mi fu risposto che loro si occupavano solo di quanto avveniva nell’abitato, per questi casi bisognava chiamare i vigili del fuoco. Telefonai pertanto alla caserma dei vigili del fuoco più vicina, sede in Policoro, e mi fu risposto che sarebbero intervenuti immediatamente. Un quarto d’ora dopo, effettivamente, un elicottero rosso fuoco sorvolò più volte la zona e mezz’ora dopo, puntuale, la telefonata del comando dei vigili del fuoco mi comunicò che dall’alto non vi erano tracce di incendio, solo il fumo grigio che proveniva proprio da quei paraggi. La competenza, pertanto, non era loro ma di altri. Alla mia domanda su chi verteva mi venne suggerita la Guardia Forestale, che guarda caso ha una casermetta proprio a Montepiano. Stupidamente nessuno ci aveva pensato.
Al telefono nessuno rispondeva per cui mi recai personalmente per la segnalazione. La porta era chiusa e, in bella vista un foglio appiccitato su un battente evidenziava l’orario d’ufficio, aperto tutti i giorni dalle 9,30 alle 12,30 e al pomeriggio dalle 16,00 alle 18,00 tranne il venerdì pomeriggio e, ovviamente il sabato e la domenica. Non mi restava che aspettare l’arrivo di qualcuno che puntualmente alle dodici e venti si presentò. Il graduato, forse un brigadiere, gentilmente mi informò che quella non era competenza del Corpo Forestale dello Stato in quanto quel territorio era proprietà comunale quindi a interessarsene doveva essere la Pro-Loco. Meravigliato che non mi avessero consegnato ai Carabinieri o alla Marina Militare tornai in paese nell’ufficio laddove ore prima era iniziato tutto il carosello.
Il collega delegato alla Pro-Loco disinteressatamente mi comunicò che non potevano in alcun modo provvedere a effettuare un sopralluogo perché sprovvisti di adeguato mezzo e l’unica auto disponibile era in servizio presso la polizia municipale. Inutile obiettare che non era necessaria un’auto a trazione integrale perché l’intero tragitto era su strada asfaltata perché la risposta, secca ed anche offensiva, fu di usare la propria auto. Chi vuole va chi non vuole comanda, più chiaro di così….
Ormai si stava facendo tardi, l’opzione era di recarmi nel primo pomeriggio dopo pranzo o subito, tenendo conto che d’inverno fa scuro presto e il percorso al ritorno è assoluitamente sconsigliato dal buon senso, oltre al doversi muovere con lo stomaco appesantito, avvisai casa che avrei fatto molto tardi a pranzo, anzi desinassero pure senza di me, e mi diressi sul posto.
Lasciai la mia auto nel parcheggio, indossai un vecchio paio di jenas e gli scarponi che normalmente uso quando vado per funghi, e mi incamminai in direzione del sentiero. Oltre un quarto d’ora dopo, attento a non scivolare sul sentiero roccioso, appoggiandomi alla parete e in alcuni punti aggrappandomi a degli spuntoni superai l’infame tragitto e mi ritrovai finalmente all’inizio del terrazzamento antistante la grotta.
 

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