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Una macchia bianca

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.
E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.

Con gesta delicate appende la camicia nell’armadio, in mezzo alle altre, quasi a volerla nascondere.  Raggiunge il bagno.  Una doccia le farà bene, la aiuterà a ripulire i suoi pensieri, lavando via tutta la confusione di questi giorni. Chiude gli occhi e si lascia scivolare addosso l’acqua quasi fredda. Meccanicamente si versa lo shampoo sul palmo della mano, inizia a frizionare leggermente la testa con la punta delle dita… le sue dita sulla schiena, quella pressione lieve eppure ferma, decisa. Il calore del suo tocco, delle sue labbra sulla pelle. Le mani sulle mani, il respiro nel respiro... Un brivido la percorre, spalanca le palpebre imperlate di gocce. Respira affannosamente, gli occhi fissi contro le piastrelle. Allunga la mano verso il sapone. E’ liscio e freddo, improvviso le arriva l’odore intenso della vaniglia. Metodicamente lo passa su ogni centimetro del suo corpo: i piedi, le gambe, il ventre… E poi le braccia, il seno. I capezzoli turgidi, la pelle tesa. Il suo corpo addosso, i desideri annullati nel suo profumo, nel suo odore. Le ombre lunghe della sera che invadono la stanza; e dietro le tende socchiuse tutto il resto del mondo…
L’affanno ritorna, come dopo una corsa. Mentre l’acqua continua a cadere china piano la testa, appoggia la fronte al muro. Intravede, tra le gocce che cadono ossessive e il vapore che satura l’aria, i suoi piedi; e li guarda stupita, come se li vedesse per la prima volta. Un senso di colpa la coglie, risalendo rapido dalle gambe verso la gola. Si sente mancare… Sorpresa si ascolta singhiozzare. Come una nenia lontana l’acqua accompagna il suo pianto, le mani continuano a lavare, ma i ricordi restano.
Chiude l’acqua. Esce dalla doccia e si avvolge in un asciugamano un po’ ruvido, forse è ora di buttarlo via. Non c’è più traccia del trucco della sera prima adesso; quando si osserva allo specchio vede solo una donna più vecchia, che assomiglia ogni giorno di più a sua madre. Spegne la luce, torna in camera. Si siede sul letto, le spalle all’armadio ancora spalancato. Rimane così, le mani aperte appoggiate sul letto, per un tempo indefinito... Poi, d’istinto, si alza. Toglie dall’armadio la stampella con la sua camicia, la sfila. La indossa velocemente, a occhi chiusi, come se svuotasse un bicchiere colmo tutto d’un fiato. Ora è in piedi, davanti allo specchio, con la sua camicia addosso.
E’ la prima volta che la indossa, non ci era mai riuscita prima. Una macchia bianca a coprire il loro peccato. E’ bella come quando aveva vent’anni ora… E’ una donna ancora desiderabile, lo sguardo fiero e sicuro. Sente che qualcosa è cambiato, sarà merito della camicia forse; però ora sente che tutta l’amarezza è svanita. Inspira a pieni polmoni l’aria fresca che entra dai vetri aperti, abbraccia con uno sguardo la stanza… Quella stessa stanza in cui i loro corpi si sono incontrati, conosciuti. La stanza in cui i loro spiriti si sono mostrati l’uno all’altro e si sono amati. Rapidamente s’infila le mutande e le calze leggere, la gonna scura. Sfila dal cassetto del comò il girocollo di perle e se lo mette mentre guadagna a passi veloci di nuovo il bagno. Raccoglie i capelli in una coda semplice che ferma con un elastico sottile; decide, mentre rovista alla ricerca del profumo, che non si metterà alcun trucco oggi: si sente bella, sa che è bella così, senza bisogno di dover aggiungere nulla a ciò che già ha.
Si mette la giacca con gesto rapido. Sceglie dall’armadietto dietro la porta un paio di scarpe col tacco, che indossa saltellando mentre apre la porta. Poi si ricorda che non ha preso la borsa e torna sui suoi passi quasi di corsa, canticchiando sottovoce. La borsa è ancora sul divano, dove l’ha lasciata la sera prima. Dentro trova le chiavi della macchina e due biglietti del cinema arrotolati. Deve decidersi di dire a Giorgio che tutti i film che le propone puntualmente non le piacciono... Di certo ci rimarrebbe male, lo sa. In fondo lui è un buono, forse non se lo merita. Giorgio che la adora, che la ama come un cucciolo fedele da un tempo ormai infinito… Giorgio, suo compagno di scuola prima, collega di lavoro dopo e ora anche nella vita. Non gli dirà nulla, nemmeno questa volta.
E’ strano come ora, mentre ripensa alla serata trascorsa con Giorgio, non provi il minimo rimorso per ciò che si è consumato nella stanza dalla quale è appena uscita. Giorgio che la riaccompagna a casa, non è ancora mezzanotte. Lei non lo invita nemmeno a salire, tanto sa che lui che direbbe che deve alzarsi presto, lo aspetta una giornata difficile. Lei che sale lentamente le scale, con passo stanco. Si sfila le scarpe e le butta sul pavimento, vicino alla lampada. Lancia la borsa sul divano e va in cucina. Prende dalla credenza un bicchiere e si versa dell’acqua dalla bottiglia lasciata sul tavolo... Non ha acceso nemmeno la luce.
 Torna in soggiorno, si siede pesantemente sulla poltrona. Una mano le sorregge la fronte, con l’altra si accarezza una gamba. Poi, come richiamata da un segnale invisibile, si alza e prende il telefono dalla borsa. Compone a memoria un numero che non ha mai inserito nella rubrica. Qualche squillo, poi la sua voce. Dolce, quasi infantile. Poche le parole, pochi minuti ed è già lì, davanti al portone di casa. Mentre sale sente i suoi passi leggeri avvicinarsi rapidamente; mentre chiude la porta alle sue spalle sente che l’amore è dolore e sa che anche questa volta amerà e ne soffrirà, inevitabilmente. Poi, una volta ancora, i loro sensi a raccontare una storia già scritta con parole sempre nuove, i loro corpi a colmare assenze e distanze, a cancellare incomprensioni e imbarazzi. Tempo immobile nel tempo che scivola via, dalle mani e tra le dita, come un aquilone strappato dal vento. Poche ore e il tempo svanisce.
Si riveste in fretta, se ne va quasi correndo. Lei rimane immobile nel letto parecchi minuti prima di alzarsi, fino a quando l’eco dei suoi passi che si allontano muore lontano. Poi si alza e scosta le tende, la luce filtra dalle persiane socchiuse.  Non c’è più tempo per i desideri pensa.
Non c’è più tempo.
La macchina è parcheggiata in strada a pochi metri dal portone di casa. Apre la portiera e si accomoda sul sedile ingiallito. Meccanicamente mette in moto. Senza accorgersene guida fino all’ufficio. Sono passate le nove da qualche minuto quando entra dalla porta a vetri che dà sul giardino interno; subito sente arrivarle addosso la solita ondata di voci più o meno simpatiche e rumori che da anni ormai scandiscono le sue giornate lavorative. Percorre a testa bassa il lungo corridoio che la separa dalla sua scrivania, evitando lo sguardo dei colleghi e i pettegolezzi delle donne delle pulizie. Lascia cadere la borsa sulla sedia e infila gli occhiali che aveva dimenticato, aperti, lì sul tavolo. Mentre scosta la borsa appoggiandola a terra si siede, con una mano accende il computer e controlla rapida con lo sguardo la pila di cartelle e documenti che la attendono nel suo casellario. Anche oggi un sacco di mail di prima mattina. Troppe per leggerle tutte, come al solito. Con tocco leggero sulla tastiera ne cancella la metà, a caso.
 La mattina sfuma anonima tra pratiche e telefonate; per pranzo decide di andare al bar di fronte. Si è già incamminata verso la porta quando il telefono inizia a squillare. Rimane qualche istante immobile, incerta se tornare indietro e rispondere o far finta di niente e andarsene. Poi, come colta da un presentimento, ripercorre i suoi passi e risponde. Presentimento sbagliato, se non avesse risposto avrebbe evitato di pranzare con Giorgio, non ne aveva nessuna voglia. Non oggi, non dopo quello che è successo ancora una volta ieri sera.
Giorgio la aspetta fuori dal bar sorridente, come sempre. E’un pugno nello stomaco quel suo viso sincero, quel suo sguardo limpido. Lei si sente affondare nella palude del suo senso di colpa. Non ha senso continuare questa storia, lo capisce mentre lui le appoggia delicatamente le labbra sulle sue, abbracciandola sotto il seno. Nulla ha più un senso.
Entrano nel bar, lei prima di lui. Si fa strada tra i tavoli affollati, ne trova uno libero sotto la finestra. Si siede con le spalle al muro, sotto una stampa in bianco e nero di una foto famosa. Forse è di Man Ray, pensa. Giorgio sta parlando da quando si sono salutati, lei a stento ha detto una parola. E’ come congelata in una morsa la sua lingua, annebbiati dall’angoscia i suoi pensieri. La cameriera passando lascia scivolare due liste sul tavolo senza nemmeno guardarli.  Giorgio ne apre una, lei lascia l’altra sul tavolo, chiusa. Lo guarda mentre legge gli ingredienti di panini e insalate, lo sente lontano. Lo ama per tutto ciò che c’è stato tra loro in tutti quegli anni, ma sa che non è lui ciò che vuole, ciò che desidera.  Si guarda le mani: la pelle liscia e morbida, le unghie curate. Quando lo sguardo si allunga incontra quello interrogativo di Giorgio. Non ha fame. No, non si sente male, anzi. No, non ha dormito poco... in realtà sì, ma non è quello il punto. Si spazientisce all’ennesima domanda che le viene rivolta come se fosse una ragazzina, stizzita sfila l’elastico dai capelli, che ricadono morbidi sulle spalle. Giorgio non capisce, ovvio. Come potrebbe? Giorgio non sa… Giorgio deve sapere, non può essere altrimenti ormai. Glielo dirà, come quando erano bambini. Come quando lei a nascondino spiava durante la conta e lo stanava subito dal suo nascondiglio. E poi, dopo aver tanto giocato, gli diceva divertita la verità, come se gli stesse raccontando una barzelletta. Leggeva allora il disappunto sulle labbra di lui, che si schiudevano per poi serrarsi subito dopo, in una smorfia delusa.
 Glielo dirà con la leggerezza del pentimento, perché se esiste una giustizia divina lei verrà perdonata per ciò che ha fatto. Glielo dirà mentre mangeranno seduti a quel tavolino, tra facce sconosciute e volti noti, e le parole le usciranno lievi confondendosi tra le voci e i rumori di piatti e bicchieri, infilzate dal tintinnio delle posate.
 Lei glielo dirà e lui, lei già lo sa, non dirà nulla. Come sempre.
Respira profondamente, si passa una mano tra i capelli. Sente il calore avvamparle le guance. Si alza, in silenzio. Giorgio la guarda, senza dire nulla. Lei si sfila la giacca, la appoggia sulla sedia accanto alla sua. Si risiede lentamente, sistemandosi la gonna mentre accavalla le gambe. Prende la borsa in cerca del telefono. Fruga, ma  non lo trova...forse l’ha dimenticato sul comodino. Lo guarda, per un attimo pensa che quello che sta per fare sia assurdo. La cameriera lascia le insalate sul tavolo e se ne va, di fretta. Lei appoggia le mai sul tavolo. Chiude gli occhi per un istante, poi li riapre e sente che il momento è arrivato. Giorgio sorride. China la testa da un lato e sorride, divertito. Lei non capisce. Si blocca, la leggerezza svanisce. E prima che gli chieda il motivo del suo stato Giorgio allunga il braccio verso di lei… sempre di più, fino a toccarle con l’indice la camicia.
Quella camicia. Una macchia bianca sulla vergogna.
E’ paralizzata lei, non capisce. Non si spiega come sia possibile che lui sappia. Come sia possibile che lui rida di ciò che ha davanti. Vuole liberarsi del macigno lei. Ma è lui che affonda il colpo.
 – E’ incredibile, hai una camicia identica a quella che ho regalato a mia sorella per il suo compleanno – dice.
Lei china la testa, senza rispondere. Un sorriso le si accende sulle labbra.
 

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