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The Cure - "Seventeen Seconds" (Seconda parte)

La batteria secca e incalzante di Tolhurst introduce quello che diventerà un classico, non solo dei Cure, ma di tutta la new-wave: “Play For Today,” è forse (come e più di “A Forest”) il capolavoro dell’album, anche sotto il profilo testuale. L’incipit non fa prigionieri e stabilisce le coordinate di tutto il cosiddetto movimento “dark-wave” (non ancora “Goth”):
 
It’s not a case of doing what’s right
It’s just the way I feel that matters
Tell me I’m wrong
I don’t care
 
Non si tratta di fare ciò che è giusto
Conta solo il modo in cui mi sento
Dimmi che sbaglio
Non m’importa
 
(Robert Smith, per tutta la vita, non farà che questo: metterci a parte, appunto, di “come si sente.”)
A seguire, i lievi ma ben definiti accordi di “Secrets”, su cui la voce del cantante (quasi un sussurro)  viene “sdoppiata” in due tracce fuori sincrono, producendo un effetto “lontananza” che richiama abissi di tristezza straniante, ci introducono a un’altra perla (ormai purtroppo dimenticata): “In Your House,” incede ipnotica, angoscioso sedativo al dolore. Qui è Gallup a farla da padrone, pescando dal cilindro un giro di basso letale che s’intreccia alla perfezione con gli arpeggi ottenebranti della chitarra. Chiude il lato A (a proposito, qualcuno si ricorda di quando esistevano il lato A e il lato B?), uno strumentale apparentemente fuori luogo, “Three”, e apparentemente strumentale: un orecchio fine può udire la voce di Smith provenire come un sibilo da abissi siderali.
A metà del cammino l’impressione è che i Cure, nell’arco dei dodici mesi intercorsi tra l’album di debutto e questo secondo capitolo, siano un “altro” gruppo, o meglio, un gruppo altro. Non c’è più traccia del pop scanzonato che tingeva di rosa molte composizioni di pochi mesi prima, né della “ballabilità” (con tutte le virgolette del caso) che, se non altro, faceva almeno battere il piede all’ascoltatore. Seventeen Seconds invade con (in)discrezione anima e orecchie per mezzo di un sound algido e robotico, verrebbe da dire (e lo si disse) a-ritmico, che sembra provenire da lande gelide, desolate (in Italia, più o meno nello stesso periodo, nasceva la splendida scena new-wave fiorentina, che sarebbe esplosa a metà decennio: i primissimi Litfiba, e soprattutto i Diaframma di Siberia saccheggeranno a piene mani le chitarre e i ritmi di Seventeen Seconds).
Eppure, all’epoca, molti lo lessero come una sterile involuzione della band: da trio power-pop a quartetto “maledettamente” serio, ai limiti del serioso, fino a prendersi lo snobistico lusso di dare avvio al secondo lato dell’album con un brano strumentale pseudo-ambient che introduce il primo, vero e indimenticabile classico dei Cure, “A Forest.”
Brano inquieto, enigmatico, carico, quant’altri mai, di una pacata tensione claustrofobica che sfocia in quell’ “again and again and again…” finale, che se negli intenti doveva essere un grido liberatorio, nella realtà si fa urlo soffocato di disperazione che apre un varco e risucchia Smith, portandolo negli abissi infernali della più cupa depressione esistenziale. Per i due anni successivi, Smith danzerà pericolosamente sull’orlo dell’abisso, pur mantenendo (quasi) sempre una sorprendente lucidità di pensiero.
 
Suddenly I stop
But I know it’s too late
I’m lost in a forest
All alone
 
The girl was never there
It’s always the same
I’m running towards nothing
Again and again and again…
 
Improvvisamente mi fermo
Ma so che è troppo tardi
Mi sono perso in una foresta
Tutto solo
 
La ragazza non c’è mai stata
È sempre lo stesso
Sto correndo verso il nulla
Ancora e ancora e ancora….
 
La ragazza che Smith ha seguito all’interno della foresta è il simbolo del nulla, della deriva nichilista affrescata di cupa disperazione che lo attanaglia e che non lo mollerà più. Il brano si conclude con il basso che spezza la fluidità dell’armonia, lasciano un senso perpetuo di smarrimento e desolazione.
 

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