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Non dirle nulla...

Adorava fumare.

Lo sapevo e lo sapevamo entrambi. Era semplicemente splendida, fasciata in quel vestito che le donava  forme sinuose.

I capelli di un biondo non descrivibile, elegante, con quel lungo bocchino in ebano finemente lavorato, tipicamente anni 20…ma mai fuori moda, e sigaretta appena accesa.

Il colore della pelle metteva a disagio e lasciava trapelare qualcosa. Pelle candida e immacolata.

Troppo candida. Perfettamente immacolata.

Si muoveva con gesti lenti e calibrati, avvolta da innegabile eleganza e raffinatezza.
 
Questo era. Questo volevo. E questo mi bastava.
Ma dubbi, domande, paure, affioravano di continuo.
E lui, accanto a me, la guardava con aria rapita, e la scrutava con il tipico fare da luminare… Lui era il Professore, suo nuovo personalissimo generatore di vita.
Era certamente ammaliato dal suo splendore e sicuramente soddisfatto della sua “cura”.
 
Eravamo tutti e tre seduti in quel ristorante, completamente vuoto, a parte noi.
Arredamenti che ricordavano tempi lontani, luci basse e camerieri (istruiti al riguardo) che si muovevano silenziosamente e con eleganza.
Eravamo seduti, io e il professore, davanti a Lei, noi sicuramente più comodi, lei invece posata di fianco, in posizione anomala e leggermente sgraziata, per nulla a disagio. Si accomodava costantemente i capelli, e con cura e grazia sistemava anche il sistema di tubi.
 
Vicino, la macchina, ronzava silenziosamente, e le stava vicino come un cagnolino fedele.
La seguiva ad ogni piccolo suo spostamento. Senza mai creare tensioni che potessero alterare la stabilità ottenuta. Un ottimo sistema.
Noi stavamo mangiando. Lei no. Per lei non era necessario mangiare. Oh si certo, avrebbe potuto assolutamente farlo, ma per calarsi con l’ambiente circostante, non per necessità. Poteva farlo si, ma con risultati poi decisamente poco eleganti. Non era nel suo stile.
Non mangiò nulla, ma bevve una quantità di champagne insolita, quasi a volere forzatamente annebbiarsi.
“Scusatemi” disse, “devo andare un minuto alla toilette”
 
Io lo guardai con aria interrogativa.
E lui mi fece cenno con gli occhi, come a dire “non commentare, non dirle nulla”
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Ero li, e ricordavo, impresse nella mente, le sue prime parole, appena aperti gli occhi.
“Voglio fumare”
“Voglio un vestito anni venti”
“Portatemi in un ristorante di altri tempi – soli, io te e lui.”
“Una serata solo per me – nessuno intorno –“
 
Queste furono le prime parole, appena riaprì gli occhi.
Rimanemmo senza parole. Come un enorme pugno allo stomaco.
Era lei?? Era “solo” lei? Era un’altra?
 
Una lista di richieste che provenivano da una non lei. Dio, se era bella però...
Otto giorni. Ora era tornata. Diciamo che mi accorsi subito che non era tornata tutta LEI. Avevo davanti a me il “lei” suo involucro esterno, il contenitore di anime e frattaglie, come diceva sdrammatizzando il Professore.
 
E il resto??
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Ricordo dubbi e parole di quel momento, di quei cinque minuti prima che per miracolo aprisse gli occhi (Miracolo? Ma che dico? Che stronzate dico?)
 
“Professore, che dici, ha ancora un'anima?”
 
“Non lo so.... tu sei sicuro di averla?”
“Io... io... forse qualcosa ho dentro, qualcosa hai anche tu..... ma sono certo che, qualunque cosa ci abiti, qualunque tipo di essenza, dopo otto giorni di morte accertata, ci avrebbe abbandonato”
 
Non mi rispose, il Professore, si riaccese il sigaro calcandosi meglio in testa il cappello, girando le spalle e bofonchiando qualcosa relativamente la necessità di controllare e calibrare costantemente il sistema.
 
Certo, come chiamarlo altrimenti? Il sistema.
 
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“Non dirle nulla”  mi dicesti, Professore, ricordi??
Non dirle nulla, non deve sapere, deve solo percepire il suo vivere con naturale continuità, come è giusto che una creatura splendente come lei sia nel diritto di fare.
La morte non ha occhi ne sentimenti, povera idiota. La morte e’ come un Dio stressato cieco e idiota.
“Non dirle nulla”   
E io non le dissi nulla.
 
Invece fu Lei, fu lei a non dirci nulla, nei giorni a seguire. Nulla del dolore che stava vivendo.
Lei. Unica e splendente anche dopo essere stata viva e vuota, svuotata di tutto.
Lei non ha resistito, se ne e’ andata, definitivamente.
Pensavamo a cosa potesse pensare, se avesse ancora un’anima, se avesse ancora una vera vita.
 
Ci chiedevamo cosa potesse provare, se avesse ancora l’istinto dei sentimenti, le paure, gli stati d’animo, insomma tutto ciò che proviamo noi … noi … integri.
 
Non ci eravamo chiesti cosa potesse invece sentire.
 
Pensavamo alla mente. All’immanente. Non sapevamo del corpo, al suo essere trascendente.
Lei non ha resistito, se ne e’ andata, definitivamente.
Questo ha lasciato scritto, prima di farsi trovare come poltiglia sciolta in acido, definitivamente morta, irrimediabilmente ricomponibile.
 
“Porto dentro un Male”
Un male che lo vorresti vomitare, ma io non posso vomitare
Un male da occhi socchiusi e luce spenta, da non dover guardare.
Un male che assolutamente niente voglia di mangiare.
Un male che non mi lascia speranza, che mi rende inerme ed impossibile dormire.
Un male violento, cattivo, feroce, che mi morde e mi dilania.
Un male che e’ un pulsare continuo scandito come dal ritmo lento di una nenia
Un male che tiene fuori tutto e mi rende impenetrabile qualsiasi sollievo.
Un male che non puoi sopportare, che credi che basti non pensare.
Una testa che forse non e’ più mia, una convivenza ingiusta di emozioni
Una testa che non produce il giusto amore, per donarti questo corpo e questo dolore.
Io devo tramontare, perché l’alba di ogni oggi, mi e’ solo per soffrire.
 
Le lacrime mi resero difficile leggere, ma mi diedero il tempo di pensare, che oltre l’arte di gestire la sua innaturale bellezza, aveva innata l’arte della poesia delle parole.
 
Odore di sigaro. Il professore se ne stava andando. Spalle basse, cappello calcato in testa.
Piangeva dentro anche lui, e piangevo io, dell'incapacità di rassegnarmi del nuovo vuoto creato.
 
Un terribile autunno, fatto di umidi grigi, mi stava aspettando.
 
Fine.

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