Scritto da © Anonimo - Dom, 23/05/2010 - 22:03
Il laccio torrido del gran caldo asfissiò
dal collo il pozzo:
asciugò prima la fonte nella bocca.
Mettemmo i rabdomanti tra le vene della terra
per capire dove fosse il suo sangue.
Emerse lo scheletro concavo dell’acqua
nemmeno elastico con quei vituperati salti
dal canneto
fino ai giovani giunchi:
nessuno di loro aveva radice in quel luogo.
Lo stecco tremò di sete dove lasciammo l’acqua dei reni.
Lui assaggiò la terra, sputò e riconobbe il cane.
Capiva meglio la pioggia.
Al che noi partimmo all’ora della fame
con più digiuni che pane a venire.
E veniamoci, qui, adesso.
Con amore
l’orizzonte allinea il precedente e non combacia,
come a memoria corriamo le macchie
di soppiatto per verzure è un occhio.
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