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quel prato, nel '69...

Foto di poetella
Oltre lo stradone asfaltato, da poco steso sotto quei palazzi tutti uguali, cinque o sei piani, cortina o intonaco, balconi piccoli e serrande scolorite, oltre lo stradone il terreno saliva un po’, terra rossa e friabile, fitta d’erbacce e qualche sasso.
E poi c’era il prato.
 
Salivano in silenzio e Gianni le dava la mano, e andava su, davanti a lei.
Lei cadeva sempre, prendeva le storte, inciampava. Pessimo equilibrio. E lui le dava la mano, su per quella specie di gradoni venuti fuori a forza di passi di ragazzi come loro. O magari del pastore con le pecore dietro. Che pure lui passava da lì.
Il sole mandava bagliori contro le guance, contro i capelli di Laura. Dentro al cuore di Laura. Sotto la pelle di laura. E lei sentiva l’incendio. E non voleva, non poteva, non sapeva spegnerlo.
 
Largo, spalancato, il prato d’erbacce alte, papaveri e grano e ortica si lasciava penetrare in qualche punto.
Su, per un viottolo, tra formiche veloci e qualche lucertoletta, s’arrivava ad un’altra radura, più nascosta, dietro a cinque eucalipti alti e un salice.
Un terrapieno faceva da quinta. Sopra qualcuno c’aveva piantato un ombrello rotto, solo stecche, con in cima una pezza bianca.
Arresi.
C’era anche una casupola diroccata, forse un vecchio ovile. Ma lì non ci entrava nessuno. Dentro solo mosche, erbacce, escrementi. Gianni diceva che c’erano le serpi. Secondo lui. Faceva con la mani il verso di strisciare verso Laura, e poi le pizzicava il naso. Lei strillava. Poi ridevano. Ridevano forte. Per buttare via tutto l’amore che li soffocava, così acerbo e incomprensibile.
- Dai, mettiamoci qui. Vuoi? E aveva steso il suo giubbotto a terra, tra i papaveri. Chissà se l’aveva fatto apposta a metterlo tra i papaveri. Forse no. O forse sì.
Se mi vede papà m’ammazza, aveva pensato lei. Ma papà non girava per prati. Speriamo, almeno.
L’unico problema è che doveva scappare al bagno, appena arrivava a casa, per lavarsi i denti e tirare via la puzza di fumo. Che le scocciava. Le sembrava di lavare via i baci.
I baci. Se ne davano a morte. Che era uno struggimento. Uno sfinimento infinito che tirava avanti, avanti e non portava da nessuna parte, e non arrivava mai.
Seduti a terra, uno accanto all’altro, o in piedi addosso al salice che sembrava una casa con le tende, si baciavano per ore.
E quella volta, erano seduti e Gianni aveva fatto un po’ di pressione, spingendo piano e sostenendo, piano piano, lento lento, continuando a baciarla e lei s’era ritrovata le spighe sotto la testa (che poi avevano dovuto levare i pezzetti tra i capelli), e un papavero piegato che sbucava fuori e un sassetto sotto le scapole. Come un ammonimento della sua coscienza.
Ma s’era lasciata andare e pensava ti amo, ti amo, ti amo, per sempre sì, sempre sì, a tutto sì.
Che poi tutto erano solo quei baci. D’altro non sapeva.
E si sentiva l’anima in gola e tutto l’inferno dentro. E sentiva che nessuno aveva mai amato così. Solo lei. E nessuno avrebbe mai più.
Ingannevole, ingenuo, avvolgente senso d’unicità dell’amore. A sedici anni è ancora più unico.
Annullamento e morte e rinascita e inizio e fine del tutto.
Laura non aveva mai fatto l’amore prima. Era vergine.
E neanche Gianni. Mai.
Un giorno le aveva serrato forte un seno, più forte del solito, che la tensione lo dilaniava e voleva scaricarla e poi era stato cinque minuti a dire scusa, scusa, scusa, ma scusa di che, pensava lei. Scusa di che, che sono tua. Solo tua. Tutta tua. Che si sarebbe spaccata a metà come una pesca per tirare fuori quel grumo d’amore che le scoppiava dentro e levava l’aria e gliela ridava di fuoco. Di fuoco come il disco arancione del sole che colava nel cielo rosso di maggio. Fra i papaveri.
 
Lei, adesso, sentiva il peso del corpo forte di Gianni sul suo, esile e fresco, lo sentiva come un marchio e lui sembrava volesse passarle attraverso, per come premeva, mentre la baciava, muto.
Le cicale riempivano di trilli l’aria immobile. Loro, vergognosi, si tenevano in petto i sospiri.
Sentiva quella pressione, Laura e anche lei si spingeva contro quel corpo, tutta contro di lui. Col prato e i sassi sotto. Le sarebbero venuti i lividi. Bene.
 
Erano completamente vestiti.
Non si sarebbero mai visti nudi, quei giorni. Non ci si spoglia su un prato. Che può sbucare il pastore. E pure le pecore. No. A sedici anni non ci si spoglia nudi. Con un padre come quello di Laura. Ma lei si sarebbe spogliata. Certo. Tutto sì, a Gianni.
Lui le aveva scoperto un po’ un seno, roseo, nel sole che tramontava e l’aveva guardato…e poi baciato piano e poi succhiato e morso… tra i sì sussurrati da Laura e il sole che scoppiava in cielo e nella pancia a tutti e due.
 
E solo una volta lui, lento lento, che c’aveva quasi paura, ma poi no, lento lento le aveva passato quella sua mano calda sulla coscia, sotto al vestito giallo, che speriamo non mi si macchia con l’erba, pensava lei, e poi non pensava più niente.
Solo a quella mano che saliva, fino all’orlo delle mutandine. E poi sotto le mutandine piano piano a sfiorarla lento. E lei sentiva quelle dita scorrere e il tempo fermo, e sotto le dita tutto scivoloso e tutto scivolava via. Tutto il mondo scivolava via.
Via, sprofondava, s’inabissava dondolando e riscaldandosi, giù in un buio fitto, dietro gli occhi chiusi con davanti il sole.
Sprofondava e poi tremava, forte, che non si fermava più, non si fermava più, sussultava ritmico come il suo cuore. Con il suo cuore stupefatto e furioso.
Nel silenzio. Nella quiete di quasi estate. Nella quiete di tutto il mondo. Fuori.
 
E s’era sentita morire.
Ma non era morta.
 
(by poetella)
 

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