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La dismissione

 

Avrei potuto dirtelo con spaccata precisione. I segni, a voler ben guardare, c'erano tutti.

Si era passati dalla Lira all'Euro, non credevo più in Babbo Natale e, mentre i Savoia rientravano in Italia, io uscivo dal mondo del lavoro.

Perché dunque tanto stupore?

 

La storia però era iniziata molti anni fa, in una via di Torino intitolata ad un Botanico. È l'immagine di quel ragazzo, che in giacca e cravatta, in po' intimidito, varca l'ingresso di una porta a vetri e sale i tre scalini che portano all'interno dell'Azienda.

Possiamo poi ipotetizzare di vederlo, negli anni, con uno schema elettrico in mano o un disegno di un particolare meccanico, consultarlo con attenzione in attesa dell'ascensore che lo porterà in un altro ufficio, in un intersecarsi di ambienti e saloni che contengono flussi di persone, di materiali e di idee.

Negli anni successivi, varcherà il passo carraio, timbrerà il cartellino alla bolla laggiù in fondo al corridoio. Salirà una rampa di scale aggettata sul vuoto, simile a un inutile pezzo di una pista di gokart abbandonata lì, che porta al primo piano. Incrocerà qualche ufficio, la macchinetta del caffè e poi l'ascensore che, nell'ala dello stabile nuovo (l'ampliamento della vecchia ditta), porterà agli uffici dei vari piani.

 

La fabbrica pulsa vitale come come un animale in corsa. Ma il tempo continua a scorrere, a macinare inesorabile giorni, mesi, anni. E proprio da anni è stata rimossa la fotografia del titolare (mancato in seguito a una peritonite trascurata) appesa al muro in uno dei reparti nell'ala del vecchio stabile; ora, passato un buon trentennio, la moglie ha deciso di vendere.

L'Azienda viene venduta e i nuovi proprietari fanno le cose alla grande! Nella prima cintura di Torino si scavano le fondamenta dove nascerà un nuovo palazzo. Sorge una cittadella di vetro e cemento su un terreno bonificato da un ordigno bellico della seconda guerra mondiale (ma ha ormai senso numerarle le guerre?), insabbiato lì.

Scorrono i mesi all'interno di questo fortilizio architettonico, labirintico nella sua geometrica simmetria, dove la luce solare è abbattuta da pesanti schermi di vetro oscurante. La luce artificiale, quella sì che diventa una costante, invade il giorno e la notte.

Ma l'altra bomba, quella sopita, di lì a qualche anno deflaga.

In un giro di valzer, venduta l'Azienda, dismessa la fabbrica, sfrattati da quel luogo e frazionati i dipendenti, i reduci vengono avviati verso uno stabile anni '50 a Torino, nel quale, una volta insediati, si respira un'atmosfera da “otto settembre “ ma la guerra continua!

Un breve lasso di anni e poi la chiusura definitiva.

A guardar bene, sembra di sfogliare un album fotografico, dove i giorni si ripresentano all'appello del tempo, di osservare le pagine di una vita trascorsa in un un luogo che vive di frammenti nella memoria.

E davvero il tempo sembra essersi fermato in quei fatidici giorni.

E sì, caro Claudio, tu eri già andato in quell'altra azienda ad occuparti di antenne, di quei segnali lanciati nell'atmosfera che tanto ti affascinavano.

E noi, qui sul pianeta terra, stavamo chiudendo.

Comprati, rivenduti e dismessi.

Ha così inizio l'esodo.

Sciamavamo come api in cerca di un alveare. Ma l'ape regina era già morta.

Si chiudeva un capitolo torinese legato alla telefonia. Perlomeno quella tradizionale

nata nel dopoguerra, dove un camion, e una squadra di giuntisti, viaggiando per le varie regioni d'Italia, ripristinava le linee telefoniche fatte saltare in aria dai tedeschi durante la ritirata.

L'azienda era rinata, dopo il conflitto, pressapoco così.

 

Era un inverno freddo quello dove eravamo usciti da quella porta definitivamente.

Inizialmente in cassa integrazione e poi con un accordo sindacale-aziendale che tamponava, in parte, economicamente il massacro.

 

Noi non lo sapevamo ancora ma eravamo un piccolo drappello, l'avanguardia dei tempi odierni. Da quegli anni in poi, come in un dannato gioco al domino, le aziende manifatturiere chiuderanno i battenti con una progressione numerica esponenziale. E a seguire, artigiani, commercianti e negozianti.

Si dirà colpa della globalizzazione, dei pochi investimenti, del lavoro esportato all'estero verso nuovi paesi emergenti. Dell'investire in servizi che non produrranno merci, di una politica legata a schieramenti del passato, l'abbandono dell'agricoltura ecc.

Resta il fatto che quegli anni, per molte famiglie, erano, e sono, diventati più pesanti del piombo.

E qualcuno non c'è l'ha più fatta. E' uscito per disperazione da questa vita.

 

A me sembrava di impazzire.

Tutto quello che avevo attorno mutava. Ciò che prima era un riferimento certo ora appariva alieno. La mia stessa abitazione, quei muri, che avevano condiviso molti momenti belli della mia vita, ora sembravano lontani, assenti.

E quei giorni si allargavano a macchia.

Un bicchiere rovesciato sulla tovaglia dei giorni.

Non esistevano formule magiche o salvifiche. Esisteva soltanto il tempo passato. Il tempo verbale futuro era nullo.

 

Sembrava che avessero amputato una parte del mio corpo, del mio spirito, della mia anima. A paragone, la precedente esperienza di malattia, perdeva di spessore e prendeva le distanze. Rimaneva confusa, sfocata di fronte a questa nuova slavina di disagio.

Tu sai che mi sono battuto e sbattuto a fondo per cercare di tornare a galla, con scarsi risultati. C'erano poi dei colleghi messi in una situazione peggiore. Marito e moglie che lavoravano nella medesima azienda, la nostra. Quella dismessa per sempre.

 

Ma il destino a volte è acuto e feroce come una mannaia.

Il governo aveva nuovamente variato i parametri per l'età pensionabile.

In dirittura d'arrivo per la pensione, un nuovo fendente alla gola.

Era un rincorrere il vuoto.

Mi sembrava di essere precipitato all'interno di una scena di guerra, dove gli U-Boot tedeschi, dopo aver affondato una nave nemica, mitragliavano i naufraghi.

E io ero uno di quelli.

Perlomeno la sensazione era analoga. Te ne avevo parlato, fin troppo, di quella mia disperata ossessione. Ma crogiolarsi nei ricordi è, come d’estate, avvolgersi in una calda coperta e stare ad osservare le stelle. Salvo ritrovarsi, in quel caso, con un cardo che ti punge il sedere e le formiche che ti si rovinano addosso. Dopo l'acuta fase di disagio e dopo quel tentativo di contratto a termine, un breve passaggio nel tempo, anch'esso naufragato miseramente, avevo smesso di sperare e di sognare.

 

Inutile assicurarti che l’immaginario di quei giorni, di quegli anni, lo porterò per sempre dentro di me, attingendo alcuni momenti (che a volte scattano da soli nella mente, come i colori del cielo, dei prati e delle montagne durante un giorno piovoso), immerso nella stessa atmosfera melanconica.

Annegavo le giornate nella scrittura. Avevo iniziato a frequentare corsi di restauro. Quasi che il restaurare oggetti (in particolar modo libri antichi) potesse, in qualche modo, resuscitare e restituire il passato. Lo scrivere era diventato il mio salvagente emotivo. Scrivevo, trasferivo momenti della mia vita sulla pagina.

Di fronte a quel vuoto artico non avevo altre alternative se non quella di impazzire. E la scrittura alleviava, per qualche ora, questa oppressione. Passavo ore immobile alla finestra a fissare il vuoto. Ricordi le passeggiate che facevamo in Torino? In quei giorni sembrava che anche la città, negandosi, si fosse ripiegata su se stessa.

 

Ti avevo poi raccontato di quell'inverno, a Pinerolo, durante gli anni giovanili del mio servizio di leva, dove una sera, dovendo ispezionare un deposito automezzi (era notte fonda, aveva nevicato e c'era un vento gelido che tagliava in due), avvicinandomi alla sentinella, sentivo che questa stava parlando da sola. Dopo il tradizionale scambio di disposizioni di regolamento (chi va là?, altolà, ecc.) mi ero avvicinato e gli avevo domandato il perché parlasse da sola.

Stava declamando un canto dell'inferno della Divina Commedia.

In quelle ore fredde e buie, si riscaldava lo spirito con l'opera di Dante.

La cosa mi aveva profondamente colpito. La poesia, la letteratura poteva dunque essere un balsamo per i momenti cupi della vita. E io mi ero abbandonato ad essi. Forse è da quei giorni che le parole per me sono diventate ossigeno vitale. Avevo iniziato a partecipare prima, e a condurre poi, un laboratorio di scrittura autobiografica. La cosa, nata per caso, aveva preso fiato. Le innumerevoli vite dei partecipanti si dipanavano e uscivano dalle pagine scritte. Tutto un universo di storie colorava quei momenti, dove le persone, gioiose, ritrovavano analogie e similitudini di vita.

Parole lette, parole scritte, parole al vento... ma pur sempre parole legate ad una storia, ad un vissuto.

 

Tu non ce l'hai fatta a vedermi raggiungere il congedo, perché sei scomparso prima, e io dovevo scrivere queste cose Claudio, dovevo chiudere con questa storia, dovevo dirtela attraverso la scrittura. Perché oggi per me, che questa vicenda legata agli anni di lavoro è ormai conclusa, resta forte il ricordo delle nostre passeggiate, delle nostre parole dette e di quella panchina che ci aspetterà inutilmente nei pomeriggi d'estate.

 

 

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