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La passeggiata

Nella notte, l'uomo alla finestra osservava quel chiaro di luna che velava la valle e per la prima volta provava nostalgia per la nebbia.
Non quella densa, fitta che non permette di vedere ad un passo, ma quella nebbiolina discreta che aleggia leggera e esalta i profumi del sottobosco, e l'odore delle foglie.
Ma forse quel grumo di nostalgia era legato a quelle passeggiate lungo il sentiero che tagliava i campi e costeggiava la collina. E  il ricordo si infittiva nel colore dei capelli di lei gonfi d'umidità. Del loro passeggiare, mano nella mano, come due ragazzini spensierati.

C'era tutta la leggerezza delle loro parole trasportate da quell'effimero e impalpabile velo bianco, in una atmosfera di colori sfumati, diluiti. I pensieri si trasformavano in parole e le parole in sorrisi. Sorrisi immersi nel silenzio autunnale. Erano i pomeriggi dove tutto ciò che occorreva era un giaccone e una sciarpa per passeggiare.
Le scarpe robuste, calpestavano le foglie, le zolle divelte e abbandonate dalle ruote dei trattori, lungo il sentiero che accoglieva i loro silenzi, le pause dei loro pensieri che offrivano spazio al momento. Gocce d'acqua stillavano dalle foglie e scivolavano via sull'erba  umida. Un'atmosfera atemporale, di sospensione, avvolgeva i loro passi.

L'antica Abbazia rosseggiava con i suoi laterizi in cotto, al fondo del sentiero, dove dal viale alberato cessava quell'idillio agreste. Il rumore della statale rompeva la sospensione del silenzio. Lo scorrere delle automobili e dei camion li riportava ad un presente frenetico, famelico di velocità e di impegni. Anche la nebbia si arrendeva a quel nastro d'asfalto turbolento e caotico.

Allora, entravano nell'Abbazia. L'interno racchiudeva la dimensione del silenzio, lo custodiva tra le sue mura. La luce artificiale spezzava la penombra della giornata, dove la luce diurna scemava con lo scorrere delle ore. Si perdevano  nell'osservare quelle figure affrescate sui muri. Evangelisti, storie di santi si confondevano tra le crepe dell'intonaco e le picchiettature, i segni del piccone (prodotti secoli fa) per fare aggrappare un nuovo intonaco.
Le panche in legno, venate dal tempo e da strati di cera, parevano in attesa di un pubblico. Ricordavano le sere dei concerti, dove un quartetto d'archi era un richiamo per una folla che saturava i posti a sedere, e si accalcava tra gli spazi delle navate. Ora le panche erano delle bocche mute, degli sbadigli assenti.

Immaginavano lo scorrere dei secoli, in quell'edificio, come le immagini di una pellicola accelerata, sino all'odierno oblio. Le ultime note di un canto gregoriano che si spegnevano tra le volte dell'Abbazia.
Poi, il pomeriggio terminava in quel caffè dai vetri antichi, con le mani racchiuse a coppa (quasi in preghiera) su una cioccolata fumante e un piattino di dolci. E i loro sorrisi si confondevano tra il vapore che velava i vetri e il cicaleccio delle coppie tra i tavolini.

Nella camera da letto, lei si girò tra le lenzuola, dormiva di un sonno profondo. L'uomo si scostò dalla finestra, gli pareva di sentire ancora l'odore dei campi e della nebbia che gli saturava le narici, e dei suoi capelli gonfi d'umidità.
Erano i profumi dei ricordi, gli odori dei loro lontani anni verdi.

 

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